Giovanni Boraccesi

Una sinfonia di argenti nell’isola di Tinos: le chiese di Kardiani e Skalados


g.boraccesi@libero.it
DOI: 10.7431/RIV25062022

Dopo che a più riprese ho reso nota la gran parte del patrimonio di argenteria custodito nelle chiese cattoliche dell’isola di Tinos 1 − un’autentica rivelazione per le arti decorative dell’arcipelago delle Cicladi − a cui vanno aggiunti i contributi di altri luoghi di culto della Grecia continentale e insulare 2 − mi affido ancora una volta alla rivista OADI per illustrare nuove suppellettili liturgiche di questa stessa isola. Tali opere, come sempre variegate per tipologie e luoghi di provenienza − pur se predominano gli opifici di Venezia, di Roma, di Parigi e dell’impero ottomano − provengono dai villaggi interni di Kardiani e di Skalados. Al completamento degli argenti dell’intera Tinos mancano all’appello quelli esposti nel Museo del Vescovado di Xinara, pressappoco una cinquantina, che intendo illustrare in futuro.

Alla Natività della Vergine è dedicata la chiesa di Kardiani, depositaria di ben tredici pezzi di argenteria. La sequela ha inizio con un Calice (Fig. 1) in bronzo argentato caratterizzato da un piede circolare gradinato con cornicette lisce concentriche e da un fusto con nodo ovoidale contenuto tra due collarini schiacciati. La coppa in argento dorato è sostenuta da un sottocoppa, sagomato e traforato, decorato in basso, in prossimità della filettatura, da foglie distribuite orizzontalmente e, in alto, da palmette alternate a un nastro sinuoso di raccordo. Nonostante l’assenza di punzonature, ritengo di dover assegnare tale manufatto a un artefice veneziano dei primi decenni del Seicento, potendosi istituire un serrato confronto con una serie di esemplari censiti in provincia di Belluno 3 e con quello del 1615 del monastero padovano di Praglia 4.

Sulla successiva Patena (Fig. 2), certamente di produzione romana pur mancando il punzone camerale dello Stato Pontificio, è impresso il bollo dell’argentiere Bonaventura Sabatini (Spoleto, 1705-Roma 1766), la cui bottega era contraddistinta con l’insegna del Nome di Gesù (IHS sormontato da croce) 5. Patentato nel 1731, dopo la sua morte il suo bollo continuò ad essere utilizzato dal figlio Giovanni Battista fino al 1810. È evidente che tale manufatto accompagnasse un calice, purtroppo non pervenuto.

Di tutt’altra manifattura è una settecentesca Navicella (Fig. 3) che presenta un piede circolare leggermente bombato abbellito da una fascia di baccelli e un semplice fusto con nodo a vaso. Ancora il motivo a baccelli, intervallato da oblunghe foglie, decora il corpo della nave, a sua volta sormontato da un coperchio a valve incernierate. Qui sono sbalzate delle cartelle lisce contornate da una lussureggiante vegetazione fitomorfa; nelle due estremità del bordo sono saldate altrettante volute fogliacee. L’esemplare in argomento fa parte di una tipologia molto diffusa nell’ultimo quarto del Settecento; privo di punzoni, andrebbe ascritto alla produzione veneziana. Ai laboratori della Serenissima, come più volte emerso nel corso dei miei studi, guardarono spesso gli artigiani di questa parte del territorio ellenico, all’epoca sotto il dominio della Mezzaluna. Va ricordato, al riguardo, la navicella della chiesa di Sant’Agapito ad Agapi 6.

Segue un elaborato Reliquiario (Fig. 4), in lamina d’argento su armatura lignea, costituito da un basamento curvilineo contenente la scritta «CÑI/1817» che, seppur enigmatica, consente di stabilire con esattezza l’anno di realizzazione dell’opera. Una base triangolare con profilo movimentato a volute vegetali e perlinature reca nel mezzo una cartella con un’altra iscrizione a lettere intrecciate «AM RIA» (Ave Maria?). Sul fusto mistilineo sono raffigurati una minuscola croce e una probabile pigna, mentre più in alto insiste il ricettacolo riccamente ornato di decori vegetali. La teca ovale è circondata da una cornice a sferette e racchiude una serie di reliquie non meglio specificate. Alla sommità sono presenti due testine angeliche che sostengono una crocetta. Il manufatto è collocabile nell’ambito della produzione dell’impero ottomano, in particolare di un artigiano di Smirne o di Istanbul, a quel tempo ragionevolmente a servizio della folta comunità cristiana insediata in queste due importanti città come pure, ovviamente, di quella dell’intera Grecia.

Più o meno coeve e anch’esse probabile opera di un altro argentiere di epoca ottomana sono due Lampade pensili (Figg. 56), i cui caratteri morfologici e stilistici rimandano alla più nobile produzione veneziana di età barocca. Entrambe si caratterizzano per un profilo movimentato, abbellito nell’estremità inferiore da una pigna; il corpo, degradante verso il basso, è attraversato da decori floreali. Sulla parte più ampia di ciscuna sono applicate tre lamine con figure di angeli che servono ad agganciare la triplice catenella. È questo un arredo liturgico ampiamente rinvenibile nelle chiese di Tinos, sia esso di produzione genuinamente veneziana, sia di manifattura turca.

Fu per iniziativa di tal Giovanni Ventura che la chiesa di Kardiani ricevette in dono un importante Ostensorio (Fig. 7) di manifattura francese. Su un’ampia piattaforma rettangolare poggia la base trapezoidale decorata tutt’attorno da foglie all’ingiù e sulla quale, su ciascun lato, sono rispettivamente raffigurati l’occhio di Dio, lo Spirito Santo, le spighe di grano e i grappoli d’uva. Il fusto germoglia da un vaso con incisi fiori penduli; la mostra è costituita da una teca circolare circondata da nuvole, da altre spighe di grano e grappoli d’uva, da vetri colorati e, più esternamente, da un’ampia raggiera. Alla sommità s’innalza una crocetta, a sua volta abbellita da una stella, forse aggiunta in un secondo momento. Sulla base del piede è inciso a lettere capitali il nome di «GIOVANNI VENTURA», da riconoscere quale offerente dell’opera. L’ostensorio, come anticipato, è di manifattura francese, segnatamente di Marsiglia, come certifica il bollo del titolo con la testa di Socrate che guarda verso sinistra, valido per i dipartimenti francesi dal 16 agosto 1819 al 10 maggio 1838. Lo accompagna un altro bollo poco leggibile, ma soprattutto il nome dell’orafo: «PHILIGRET ONCLE ORFEVRE SUR LE PORT». Nel volume Tablau historique et politique de Marseille edito nel 1806 7, è citato un «Philigret, orfèvre, sur le port» ed anche quello del nipote «Philigret, Joseph, neveu, orfèvre, rue canebiére, île 146». Ciò ci permette di appurare che l’attività del nostro orafo è, al momento, compresa tra il 1806 e il 1819/1838.

Il semplice Piattino da comunione (Fig. 8) si fa notare per una insolita forma, visto che è predominante quella circolare. È, questa, una tipologia che ho rinvenuta soprattutto nelle chiese cattoliche della Grecia e del Medio Oriente come, per esempio, l’esemplare del 1845 esposto nel Museo parrocchiale di Agapi. Tutto ciò induce a proporre una datazione entro i primi decenni del XIX secolo e a restituirlo alla mano di un argentiere attivo in una delle due città più importanti dell’Anatolia, ovverosia Istanbul e Smirne, dove nutrita era la presenza dei fedeli cristiani. L’esemplare in questione è bollato con quattro punzoni ottagonali affiancati tra loro e ciascuno contenente un simbolo e una sigla non meglio identificabili.

Alla sobrietà di quest’ultimo arredo si contrappone un secondo Piattino da comunione (Fig. 9), ovale e pressoché coevo al precedente, che presenta caratteristiche di pregio per via di una fascia perimetrale a traforo, purtroppo lacunosa nel lato destro, costituita da un sinuoso nastro che s’insinua in un groviglio di tralci di vite e grappoli d’uva, chiari simboli eucaristici. Sul manufatto ho rilevato la prova di assaggio e, soprattutto, il tughra, vale a dire il sigillo dei sultani ottomani in uso dal 1844 al 1926 8. È perciò evidente che il nostro piattino sarà stato realizzato da un argentiere esercitante a Smirne o a Istanbul.

Ancora una volta riconducibile a un artista attivo in una di queste città marinare dell’impero ottomano è una Navicella (Fig. 10) di forme molto semplici, caratterizza da un piede circolare gradinato su cui si imposta il fusto che regge la coppa ovoidale, a sua volta chiusa da due valve incernierate nel mezzo. Alle estremità del corpo sono saldati due clipei con testa di medusa fusa e cesellata, chiara ispirazione a modelli antichi messi in campo dall’imperante gusto neoclassico.

Di probabile manifattura occidentale, invece, è questa semplice Patena (Fig. 11) che presenta quattro diversi punzoni ottagonali affiancati tra loro, diversi da quelli registrati sul piattino prima citato, e anch’essi di difficile soluzione: un leone, forse le lettere «FC», tre losanghe, forse due fiaccole incrociate.

La Pisside (Fig. 12) che qui mostro è il risultato dell’assemblaggio, avvenuto in un momento non meglio precisabile, di due elementi differenti. Sul piede circolare insiste il fusto con nodo a vaso, di chiaro gusto neoclassico; questa parte, in rame dorato e priva di decoro, per le sue caratteristiche morfologiche è assegnabile a un artefice romano del primo Ottocento. La coppa in argento, sebbene quasi coeva, è stilisticamente dissonante dal resto e andrà probabilmente ascritta a un maestro dell’impero ottomano. Il coperchio è decorato da un’ampia fascia a girali su fondo puntinato, segnata in alto da baccellature e ancor più sù da un pomo con crocetta.

All’iniziativa di Antonio Rigo, come da iscrizione riportata sulla base, si deve questo imponente Ostensorio (Fig. 13) in bronzo e bronzo argentato di chiaro gusto revivalistico. Sulla base a sezione mistilinea, suddivisa da specchiature triangolari, poggiano due angioletti a getto. Carico di elementi vegetali è il movimentato fusto che supporta la sovrastante raggiera, a sua volta arricchita da due rami divergenti di spighe di grano e tralci di uva. La teca circolare, affiancata da tre teste di cherubini, è circondata da un banco di nuvole e, più internamente, da castoni colorati. Più in alto due angeli in volo sostengono una corona con crocetta apicale. Il manufatto, a mio parere, si colloca nell’ambito della produzione industriale italiana della seconda metà dell’Ottocento.

Venendo ora a parlare degli argenti conservati nella chiesa parrocchiale di Skalados, intitolata al nome di San Giovanni Battista, il più antico qui rinvenuto è un Calice (Fig. 14) contraddistinto dall’essere la base, il fusto e il sottocoppa in bronzo fuso, mentre la coppa è in argento e argento dorato. I motivi decorativi del piede si articolano in due fasce: la prima a ovoli, la seconda a palmetta. Dal centro si imposta il fusto, contraddistinto da una sequela di collarini e da un nodo piriforme arricchito da foglie d’acanto. Il sottocoppa, lavorato a sbalzo, è suddiviso da campiture includenti baccelli e desinenti in volute affrontate e sagomate. Il manufatto è riferibile alla seconda metà del secolo XVII e andrebbe conferito alla produzione romana; paralleli si possono istituire con alcuni esemplari presenti sul territorio dell’ex Stato Pontificio 9; non molto differente, inoltre, è il calice conservato nella chiesa di Krokos, sempre a Tinos 10.

L’esame delle opere continua con la descrizione di un ennesimo e più modesto Calice (Fig. 15), la cui base con piede circolare e il fusto con nodo piriforme sono in bronzo dorato e non presentano alcun decoro. Il sottocoppa, anch’esso in bronzo dorato, è ingentilito da un intreccio di volute con foglie nel mezzo; la coppa svasata, al contrario, è in argento. L’arredo andrebbe riferito alla produzione romana della prima metà del XVIII secolo.

Questa Croce astile (Fig. 16), abbellita lungo il perimetro da elementi traforati, presenta una delicata decorazione a racemi ondulati; al centro è inchiodato il Cristo del tipo patiens in bronzo fuso. Sul recto, le formelle polilobate dei terminali includono in alto il Padre Eterno, ai lati le figure dei dolenti (la Vergine e san Giovanni), in basso la Maddalena. Sul verso, che propone la medesima decorazione fogliacea, è raffigurata la Madonna assisa su un banco di nuvole, mentre nelle terminazioni della croce sono rappresentati gli Evangelisti intenti a scrivere il Vangelo: san  Giovanni in alto; san Marco a destra; san Matteo a sinistra; san Luca in basso. Elegantissimo e fitto di ornati è il nodo, che assieme all’asta tubolare sono entrambi interessati da un repertotio naturalistico. Sull’oggetto, databile entro la prima metà del Settecento, ho rilevato due punzoni spettanti alla città di Venezia: quello con il leone di San Marco e l’altro del sazador della zecca Zuanne Premuda, contraddistinto dalle lettere «ZP» intervallate da un volatile 11.

La croce in esame presenta un impianto strutturale squisitamente settecentesco con rimandi a modelli veneziani di età medievale. Per inciso, la più bella e antica croce veneziana da me rinvenuta a Tinos è quella di Chatzirados, databile tra la fine del XVI e gli inizi del XVII secolo. Croci simili alla nostra, anch’esse di manifattura veneziana, sono quelle di Agapi, di Koumaros, di Krokos e di Smardakito. Questo tipo di suppellettile, assai imitato dagli argentieri a servizio dei cristiani cattolici e ortodossi, ebbe una rilevante diffusione a giudicare dal gran numero di esemplari finora da me visionati in Grecia; per la sola isola di Tinos ricordo le croci di Kalloni, di Kampos, di Kato Klisma, di Ktikados, di Myrsini, di Tarampados, di Tinos (parrocchiale di San Nicola), di Volax e di Xinara; per non dire, poi, di quelle custodite nel Museo del Vescovado che avrò modo di illustrare in altra sede.

Alla chiesa di Skalados appartiene un secondo e raffinato Calice (Fig. 17), il cui piede circolare è contraddistinto da un orlo sottilissimo cesellato con rametti fogliacei e perline nella porzione superiore. Sulla parte rigonfia del piede robuste nervature delimitano delle campiture triangolari che includono elaborate ghirlande. Il nodo del fusto, a sezione triangolare,è ravvivato negli spigoli da testine angeliche. Il sottocoppa è anch’esso caratterizzato da una ridondanza di elementi naturalistici e da testine angeliche. Il manufatto ripropone una tipologia ampiamente documentata nella seconda metà del XVIII secolo, con evidenti riferimenti al gusto rocaille di ambito veneziano. Lo conferma, al riguardo, il punzone con il leone di San Marco affiancato a quello di controllo della zecca con le lettere «BC» intervallate da un giglio 12. Sul piano tipologico può confrontarsi, fra i tanti possibili, con il calice della chiesa di Santa Eufemia a Venezia 13.

Nulla sappiamo del successivo Turibolo (Fig. 18) che presenta piede a base circolare decorato da foglie e da palmette che si ripetono anche sulla coppa del braciere. Sull’orlo superiore sono fissati tre occhielli da cui si dipartono altrettante catenelle agganciate al piattello di sospensione. Nella parte inferiore del coperchio, lavorato a traforo per permettere la fuoriuscita del fumo, ritroviamo gli stessi decori del corpo; in quella superiore, a padiglioni sovrapposti digradanti verso l’alto, l’ornato si arricchisce di nuovi e più complicati elementi. Nonostante l’assenza di punzoni, la ritengo opera di fattura orientale e dunque da ascriversi a un argentiere dell’impero ottomano dei primi decenni dell’Ottocento, stlisticamente è assai prossima a taluni  esemplari conservati nelle chiese ortodosse di Tinos 14.

Appare plausibile che questa Navicella (Fig. 19) vada in coppia con il precedente turibolo, dunque anch’essa confezionata in un laboratorio artigianale della Mezzaluna. Presenta un voluminosa base circolare, internamente decorata da una fascia di minute foglie che, sebbene di dimensioni maggiori, ritroviamo sul collo del piede, a sua volta sovrastato da un nodo a balaustro. La coppa, dal coperchio apribile, è ornata da un più ricco motivo a foglie e steli floreali. Nelle due estremità, a mo’ d’impugnatura, sono saldate teste di draghi. Al pari di altri più conosciuti esempi presenti sull’isola di Tinos, può essere datata al primo Ottocento; essa trova ispirazione in quelle confezionate nei tanti laboratori di Venezia.

In ragione del rilevamento del punzone dello Stato Pontificio è agevole assegnare a un argentiere dell’Urbe questa Pisside (Fig. 20) che, ad eccezione della coppa in argento, è realizzata in bronzo dorato. Presenta piede circolare e gradinato decorato da una fascia di foglie a palmetta. Il fusto è caratterizzato da un nodo a balaustro con zigrinature. La coppa liscia è chiusa da un coperchio articolato con una fascia di foglie simile a quelle del piede, mentre la calotta è ornata da foglie appuntite. Sulla sommità è presente una crocetta che, forse, sostituisce l’originale. L’oggetto, come anticipato, è marchiato con il punzone dello Stato Pontificio, ovvero il triregno e le chiavi decussate, in uso dal 1815 al 1870 15; a mio parere, la datazione andrebbe meglio circoscritta tra il 1815 e non oltre il 1850.

Il considerevole arrivo di argenti dalla Francia − qui come in altri edifici di culto finora esaminati in Grecia, specie all’indomani dell’indipendenza dal dominio ottomano (1821) − è testimoniato da questo Reliquiario (Fig. 21) in argento e bronzo dorato, fin da principio destinato a custodire una reliquia di San Giovanni Battista e oggi, invece, quella della Sacra Sindone. È impostato su base rettangolare sostenuta da quattro piedini a voluta. Nel mezzo è saldato un agnello, chiaro riferimento all’Agnello di Dio, vale a dire a Gesù Cristo, indicato dal Battista, e più sotto la scritta a lettere corsive: «Divo Praecursori Cycladiensi Patrono / Antonio Rossi D· D· D·». Il movimentato fusto presenta un nodo cuoriforme con testina angelica. La custodia, di forma grossomodo ovaliforne e contornata da un susseguirsi di volute, è posta tra due rami di palma divergenti che convergono in prossimità della croce apicale. Tale reperto venne dunque non a caso commissionato per contenere una reliquia del Precursore che, lo ricordo, è il titolare della chiesa di Skalados. La sua datazione deve essere ricercata entro la prima metà del XIX secolo.

La rassegna dei pezzi di manifattura francese continua con un elegante Ostensorio (Fig. 22); lo attesta il punzone con la testa di Minerva, valido a partire dal 1838, oltre alla sua particolare tipologia, ampiamente diffusa nella nazione d’oltralpe. La base, su quattro piedini a voluta, è decorata in basso da una fascia di rosette; scompartita da nervature e presenta sul lato principale l’Agnello sul libro con i sette sigilli dell’Apocalisse, mentre sul lato secondario è visibile il triangolo con l’occhio di Dio. Da un frontone curvilineo si diparte il fusto con un elaborato nodo cuoriforme decorato nel mezzo da grappoli d’uva ed esternamente da due testine angeliche. Da qui si innalza la raggiera, decorata in basso da mannelli di spighe di grano e, più in alto, da nuvole popolate da altre testine di cherubini che contornano la teca circolare, a sua volta bordata da cristalli colorati. In cima svetta una croce con terminazioni elaborate. Per l’utilizzo di alcuni elementi decorativi comuni (piedini e struttura del nodo) sarei portato ad assegnare questo oggetto al medesimo argentiere del reliquiario precedente e, perciò, anch’esso da datare a dopo il 1838.

Dalla Francia, ancora una volta, giunse questo Calice (Fig. 23) in bronzo dorato e argento. Presenta piede mistilineo impostato su un alto gradino con la scritta: «NICOLAUS PERPIGNAN SAC(ERD)OS ALUMNUS VEN COLL URB DE PROPAGANDA FIDE 1850». Una fitta ornamentazione di volute e simboli cristologici − spighe di grano, grappoli d’uva e piante palustri (Typha latifolia) − copre la superficie del piede, del nodo ovaliforme e del sottocoppa traforato. Questi elementi si alternano a medaglioni con le raffigurazioni, in basso, del Padre Eterno, di Gesù e della Madonna e quelle delle tre Virtù Teologali, in alto. Benchè non punzonato, tuttavia il calice andrà assegnato alla produzione francese anche in ragione della probabile origine transalpina del suo donatore che fu allievo, come sopra eplicitato dalla succitata scritta, del prestigioso collegio romano di Propaganda Fide.

Sempre dalla Francia proviene questo ennesimo Calice (Fig. 24) che si fa notare per la semplice composizione. Dalla base circolare, ov’è incisa una croce greca, si innalza il fusto caratterizzato da collarini e da un nodo a sfera schiacciata. La coppa svasata, è priva del sottocoppa. Sul manufatto ho rilevato il punzone di garanzia con la testa di Minerva, valido dal 10 maggio 1838 al 1919; accanto è il bolo dell’argentiere Placide Poussielgue-Rusand, attivo dal 1847 al 1891, il cui laboratorio era installato al 36 di rue Cassette a Parigi 16. Sono ormai diversi gli oggetti di quest’artefice rinvenuti a Tinos: Agapi, Karkados, Loutrà; qui, inoltre, anticipo l’esistenza di una sua patena nel Museo del Vescovado di Xinara.

La raccolta delle suppellettili di Skalados si completa con un ennesimo oggetto di manifattuta francese, vale a dire una semplicissima Pisside (Fig. 25) sulla quale ho rilevato il punzone con la testa di Minerva. Sul piano stilistico e morfologico penserei di assegnare anche questo pezzo a Placide Poussielgue-Rusand per gli innegabili accostamenti con il calice appena descritto.

  1. G. Boraccesi, A Levante di Palermo. Argenti con l’aquila a volo alto nell’isola greca di Tinos, in «OADI»», n. 4, dicembre 2011, pp. 60-67; Idem, Una sinfonia di argenti nell’isola di Tinos: le chiese di Aetofolia, Kalloni, Karkados, Smardakito e Vrissi, in «OADI», n. 10, 2014, pp. 113-130; Idem, Una sinfonia di argenti nell’isola di Tinos: le chiese di Chatziràdos, Koumàros, Kròkos e Steni, in «OADI», n. 12, dicembre 2015, pp. 65-78;  Idem, Una sinfonia di argenti nell’isola di Tinos: la chiesa di San Nicola di Bari a Chora e il Palazzo Vescovile, in «OADI», n. 13, giugno 2016, pp. 87-95; Idem, Una sinfonia di argenti nell’isola di Tinos: le chiese di Agapi, Kerchros e Potamia, in «OADI», n. 14, dicembre 2016, pp. 107-122; Idem, Tα αργυρά του Αγίου Νικολάου της Χώρας Τήνου, in Όρμος ο Γαληνότατος. Η Ενορία Αγίου Νικολάου των Καθολικών Χώρας Τήνου, a cura di Marcos Foscolos, Τήνος 2016, pp. 321-332; Idem, Una sinfonia di argenti nell’isola di Tinos: le chiese di Komi, Tarambàdos e Volax, in «OADI», n. 15, giugno 2017, pp. 125-139; Idem, Una sinfonia di argenti nell’isola di Tinos: le chiese di Kampos, Loutrà e Xinara, in «OADI», n. 17, giugno 2018, pp. 151-164; Idem. Una sinfonia di argenti nell’isola di Tinos: le chiese di Kato Klisma, Ktikados e Sant’Antonio di Tinos, in «OADI», n. 19, giugno 2019, pp. 87-101; Idem. Una sinfonia di argenti nell’isola di Tinos: la chiesa di Myrsini, in «OADI», n. 23, giugno 2021.[]
  2. G. Boraccesi, Rapporti tra la Grecia e l’Occidente europeo negli argenti della Cattedrale di Naxos, in «Arte Cristiana», 863, marzo-aprile 2011, pp. 131-144; Idem, Le oreficerie della Cattedrale di Corfù fra Quattro e Seicento, in «OADI»», n. 6, dicembre 2012, pp. 63-88; Idem, Le oreficerie della Cattedrale di Corfù fra Sette e Ottocento, in «OADI»», n. 7, giugno 2013, pp. 131-148; Idem, Argenti della liturgia cattolica nella cattedrale di Rodi, «Arte Cristiana», 879, novembre-dicembre 2013, pp. 440-450; Idem, Arti decorative in Grecia. Gli argenti della parrocchiale di Volos, in «Estudios de Platería San Eloy 2021», Murcia 2021b, pp. 75-82.[]
  3. T. Conte, Osservazioni per un catalogo dell’oreficeria sacra nelle antiche pievi di Cadola e dell’Alpago, in Tesori d’arte nelle chiese dell’alto bellunese. Alpago e Ponte nelle Alpi, a cura di M. Mazza, Belluno 2010, pp. 165-167. []
  4. G. Baldissin Molli, Le suppellettili sacre d’oro e d’argento tracce lontane e patrimonio attuale, in C. Ceschi-A. M. Spiazzi-F.G.B. Tirolese (a cura di), Santa Maria Assunta di Praglia. Storia, arte vita di un’abbazia benedettina, Praglia 2013, pp. 504-505.[]
  5. A. Bulgari Calissoni, Maestri argentieri gemmari e orafi di Roma, Roma 1987, p. 375.[]
  6. G. Boraccesi, Una sinfonia di argenti…, OADI n. 14, 2016, p. 111.[]
  7. J. Chardon, Tablau historique et politique de Marseille, Marseille1806, p. 264.[]
  8. J. Diviš, I marchi negli oggetti d’argento, La Spezia 1989, pp. 36, 234 no 1982.[]
  9. A. M. Pedrocchi, Argenti sacri nelle chiese di Roma dal XV al XIX secolo, Roma 2010, pp. 57, 72; G. Barucca, Il tesoro del Santuario della Madonna della Misericordia di Macerata, in Sub tuum praesidium. Il Santuario della Madonna della Misericordia a Macerata, Azzano San Paolo 2008, pp. 193-194.[]
  10. G. Boraccesi, Una sinfonia di argenti…, 2015, p. 71.[]
  11. P. Pazzi, I punzoni dell’argenteria veneta, Pola 1992, p. 150 no 479.[]
  12. P. Pazzi, I punzoni…, 1992, p. 73, no 81.[]
  13. F. Basaldella, Alla scoperta di un tesoro sacro. Le oreficerie della chiesa di S. Eufemia della Giudecca, s. n. stampa 1996, p. 87.[]
  14. Ι. Γκερέκος, Σκεύη ιερά τω Θεώ ανατεθειμένα, Tήvoς 2010, pp. 41-42.[]
  15. A. Bulgari Calissoni, Maestri argentieri gemmari e orafi di Roma, Roma 1987, pp. 56-57; il bollo è quello indicato dal numero 172, utilizzato per gli argenti di piccole dimensioni.[]
  16. C. Arminjon-J. Beaupuis-M. Bilimoff, Dictionnaire des poinçons de fabricants d’ouvrages d’or et d’argent de Paris et de la Seine, t. II, 1838-1875, Paris 1994, p. 321 no 03549.[]