Girolamo Andrea Gabriele Guadagna

La committenza dell’arcivescovo Ferdinando Bazán de Benavides nella Palermo delle utopie

girolamo.guadagna@unipa.it
DOI: 10.7431/RIV29042024

Gli uomini grandi, come le istorie con più esempi ci raccordano, memorabile fu spesse volte il giorno della lor nascita1

Il passo introduttivo alla vita di Monsignor don Ferdinando Bazán de Benavides (Fig. 1) tratto dagli Elogj accademici della Società degli spensierati di Rossano – edito a Napoli nel 1703 da Giacinto Gimma – è prova inconfutabile che la data di nascita di Ferdinando Bazán, il 29 aprile 1627, rappresentasse un giorno «memorabile» poiché oltre a ricadere nel commemorativo «dedicato alla solennità di S. Pietro Martire, inquisitore del S. Ufficio nella cristianità»2, andò a coincidere con una serie di eventi nodali quali furono «la possessione del canonicato di Campostella; indi dell’arcivescovado di Palermo»3.

E le fonti erudite del tempo sembrano dargli ragione, in quanto, secondo l’annotatore di patrie memorie Antonino Mongitore, non a caso il 29 aprile

fu dottorato in Salamanca l’istesso giorno, nell’istesso giorno fu ammesso al canonicato di San Giacomo in Saragoza d’Aragona, prese possesso di inquisitore in Spagna altresì nell’istesso giorno, e finalmente l’istesso giorno di San Petro venne in Palermo e prese possessione dell’arcivescovato4.

La sua biografia di certo non manca di allegorie erudite, ma quale conoscenza storiografica possediamo oggi di Ferdinando Bazán?

Comprendere e assumere in partenza questi fattori significa quindi non limitarsi solo a costruire spiegazioni biografiche, ma decifrare un intero contesto, la situazione contingente e le convenzioni di una storia ancora tutta da scrivere.

Tuttavia, il non allinearsi alle fonti militanti di Giacinto Gimma e del canonico Antonino Mongitore, per quanto costituiscano soltanto una base di partenza, porterebbe a scelte interpretative non facili.

Palermitano per nascita, figlio di Alvaro de Bazán Manrique de Lara, III marchese di Santa Cruz e I marchese del Viso, secondo quanto annotato nel 1728 dal padre Giovanni Maria Amato nel De principe templo panormitano, Ferdinando Bazán «ricevette l’acqua santa del battesimo nella chiesa parrocchiale di San Nicola alla Kalsa»5.

Se prestiamo fede alle parole degli eruditi apprendiamo inoltre che Ferdinando fu esponente di una famiglia appartenente all’aristocrazia di ascendenza iberica la quale, grazie anche all’avvicendarsi del potere politico e religioso, si distinse «tra le altre della Spagna per le Commende degli Ordini militari, e per gli bastoni de’ Generali; per gli Pastorali Bacoli, e per le Signorie: per le Viscontee similmente, e per il Grandato così tra’ Castigliani, come tra gli Spagnuoli»6.

Le fonti non lasciano dubbi sul fatto che Ferdinando Bazán ricevette un’accurata educazione, infatti, come annota ancora l’erudito napoletano:

tolto agli agi della sua casa, fu inviato allo studio di Salamanca, madre delle buone discipline; ove invece di passar gli anni giovanili tra le morbidezze cavalleresche, si applicò all’acquisto delle umane lettere, della Filosofia e della Teologia; e coltivando l’ingegno anche nelle fatiche delle Leggi, e di molte scienze, in età d’anni diecenove, n’ottenne l’onorevol laurea di Bacelliere7.

Ma ancora dovette essere un uomo interessato al contesto europeo, e ciò lo dimostra il fatto che, come scrive in termini elogiativi Antonino Mongitore, Ferdinando Bazán «In Madrid aprì nella propria casa un’Accademia di Filosofia Morale e Naturale e d’Erudizione per proprio esercizio, ed altrui giovamento»8.

Intrapresa la carriera ecclesiastica ricoprì una serie di incarichi di prestigio che lo portarono ad essere uno dei principali artefici della politica curiale sotto i pontefici Alessandro VII, Clemente IX, Clemente X, Innocenzo XI e Innocenzo XII.

Eppure, l’apice della sua carriera giunse solamente nell’anno 1685 quando re Carlo II lo elesse quale nuovo arcivescovo di Palermo «per cedola reale data in Madrid a 26 di settembre 1685, e confermato per bolla data in Roma a primo aprile 1686 dal pontefice Innocenzo XI, eseguite in Palermo a 29 aprile 1686»9; e fu così che il 27 febbraio «primo giorno di quaresima partì una galera di Sicilia per andar in Napoli a prendere il nuovo arcivescovo di Palermo»10.

Quella del 29 aprile 1686 dovette essere una limpida giornata di inizio primavera, quando sulla galera Ferdinando Bazán avvistò le sponde della Sicilia. In effetti era solo un adolescente quando aveva lasciato per la prima volta l’isola e adesso vi ritornava all’età di cinquantanove anni, dopo ben oltre quarant’anni passati in Spagna.

Il suo arcivescovado, così come scrive ancora il canonico palermitano, fu solennemente celebrato come di consuetudine il giorno successivo con la consegna del «sacro pallio» avvenuta per mano dell’arcivescovo di Monreale «don Giovanni Roano e Corrionero, nella chiesa di San Giuseppe de’ padri Teatini»11. Gli succedeva a quello di Jaime de Palafox y Cardona (1677-1684) durato appena sette anni per non essere piaciuto al popolo palermitano12.

Del resto, la città di Palermo, in questi lunghi anni di assenza, non era più come quando l’aveva lasciata, era divenuta, per dirla con Maria Giuffrè, una “Palermo delle utopie”13. La riprova di questa teoria formulata dalla storica, ci viene da quanto avvenuto in effetti nel successivo quarto di secolo con una tripartizione alquanto significativa: il completamento dell’intero assetto urbano, le committenze arcivescovili e religiose in parallelo alle attività per altre famiglie della consorteria palermitana in fase di crisi ma anche alla vigilia della ripresa. Nuovi palazzi e nuove chiese, dunque, avevano cambiato il suo volto e il suo animo, e inevitabilmente si erano instaurate altre e nuove relazioni di potere.

Non si può contestare che il suo arrivo coincise con l’anno dei grandi cambiamenti ideologici e artistici chiaramente percepibili nel grandioso apparato scenografico progettato per la prima volta in scala monumentale dall’architetto Paolo Amato (Fig. 2) in onore di Santa Rosalia e impresso da Michele Del Giudice nel suo Palermo Magnifico14, e nel poliedrico Atlante, noto come il Teatro Geografico Antiguo y Moderno del Reyno de Sicilia15 – legato molto probabilmente alla committenza del viceré Francisco de Benavides (1678-1687), conte de Santisteban -, allo scopo di mostrare con orgoglio il processo di restaurazione monarchica intrapresa dal medesimo viceré, così come il voler celebrare la fondazione di “due” capitali del regno, Palermo e Messina, in un periodo nel quale la seconda aveva ormai perso questo “titolo” e il relativo prestigio, in seguito alla repressione della rivolta del 1674-78.

Ma sarebbe pretestuoso negare che alla data 1686 il sistema politico e al contempo la cultura artistica palermitana si fosse avviata da sola alla sperimentazione di nuovi linguaggi; trasversalmente tutta l’Europa stava riformando i suoi repertori figurativi per le aspettative di prestigio e di propaganda politico-religiosa.

La Chiesa com’è noto, nell’ultimo quarto del secolo XVII, celebrava il successo delle missioni cristiane in tutto il mondo: dalle Americhe al lontano Oriente, attraverso l’apostolato di ordini controriformistici, in primo luogo la Compagnia di Gesù, ma anche da parte di antichi ordini come Domenicani e Francescani. Ma più di ogni altra cosa festeggiava le vittorie contro i turchi a Chocim (1673), a Vienna (1683), fino alla riconquista di Buda (1686). Questi fattori generarono un irrefrenabile entusiasmo nella cristianità e nell’arte, la quale, attingendo all’allegoria dell’auriga alata trainata da un bianco cavallo che conduceva verso il mondo delle idee descritto da Platone, rappresentò al meglio la vittoria sul mondo della concupiscenza16. L’arte, dunque, era divenuta lo strumento più idoneo per rendere manifeste le aspirazioni trionfalistiche della cristianità dal momento che si trattava di un’immagine ufficiale e come tale destinata a offrire un’immagine vittoriosa.

Questo apologo sembrerebbe una delle premesse ovvie per una vicenda singolare: eppure potrebbero essere proprio queste le sintesi del complesso rapporto che per oltre un decennio si snodò fra l’arcivescovo e la città di Palermo; indubbiamente, il capitolo della committenza di Ferdinando Bazán sarà ben più complesso.

Una circostanza senza dubbio sorprendente, se teniamo conto dei suoi predecessori, fu la sua abilità nella captatio benevolentiae, strategica o empatica che sia stata, mostrata nei confronti dei poveri palermitani donando loro un generoso quantitativo di pane giornaliero che distribuiva davanti la porta del palazzo arcivescovile e in somma di denaro nella festività di San Ferdinando17.

Probabilmente, dietro questo ardore protagonistico, si cela un uomo dotato di grandi sensibilità e curiosità versate tanto nel campo della botanica quanto in quello dell’ornitologia, ai quali dedicava buona parte del suo tempo parallelamente alla sua carica ecclesiastica18. Numerose poi sono le testimonianze che consentono di analizzare altri suoi interessi culturali. Essi suggeriscono quelle che erano le sue predilezioni, i suoi gusti, le sue passioni, potremmo anche dire manie, le quali mostrano una poliedrica personalità. Tuttavia, per quanto nella sua contabilità si faccia spesso riferimento all’acquisto di libri, sui titoli abbiamo poche informazioni precise. La sua biblioteca spazia dalle discipline teologiche, filosofiche, storiche e geografiche, dunque, una sorta di theatrum omnium disciplinarum. Alcuni testi presenti negli scaffali della sua biblioteca sono l’atlante del fiammingo «Abbram Ortelio» che fece «inquadernare dorare e mettere fibbii»19 i «5 tomi della filosofia del Gulduccio»20 e ancora «cinque tomi del Padre Mamiliano Sandei»21. Né si può negare che fu senza ombra di dubbio un grande estimatore di cioccolata profumata alla vaniglia, cannella e muschio “all’uso di Spagna” che puntualmente faceva preparare da un cuoco esperto22, seguita dalla sua passione per il tabacco «del Brasil»23.

I suoi primi anni a Palermo, tuttavia, non sembrano palesare particolari rapporti strategici e interessi verso un atteggiamento di rinnovo in campo culturale. Ferdinando Bazán si diede un tempo di riflessione; un giusto atteggiamento che, probabilmente, derivò dal fattore di essere nuovo in una sede diplomatica e curiale alquanto emblematica, come quella palermitana, nella quale doveva imparare a muoversi con una certa disinvoltura.

Anche se ancora oggi rimangono sospesi molteplici quesiti che potrebbero meglio illuminare le storie celate di un intero secolo, certo è che al sagace clima culturale palermitano, nel quale esprimevano tutto il loro furore creativo architetti, pittori, scultori, orefici, mobilieri, si affiancava, come ha ben illustrato Vincenzo Abbate24, l’interesse irrequieto del collezionismo al quale l’arcivescovo non dovette essere di certo estraneo.

Ma a oggi possediamo solo un’eco sbiadita della sua collezione e le scarne notizie in nostro possesso rendono problematico il tentativo di ricostruirla. Nondimeno dai minuziosi pagamenti si avverte tutto il sentore che Ferdinando Bazán avesse creato una Schatz-und Wunderkammern davvero eccezionale.

Nelle sue stanze erano presenti «li retratti delli signori Re e Regina» che dovette portare direttamente dalla Spagna, il quadro della «Madre di Dio delli Dolori», un «Santo Christo Crocifisso d’avolio» fatto realizzare a Palermo nel 1687 che poggiava su «un casciarello d’ebbano», «dui immagini di corallo, una della Madre di Dio della Annuntiata et altra di Santa Rosalia con suoi pedi di corallo» acquistati da mastro Petro Antonio Senaturi per 22 onze, un quadro «di San Genonimo che tiene sua illustrissima allo capizzo della sua camera»25, come ancora uno del «Re nostro signore don Ferdinando» e altri quadri dai soggetti non specificati e molti oggetti d’argento fatti realizzare dal poco noto argentiere Domenico Fulco/Falco26.

Nell’ambito dei suoi interessi scientifici, e dunque di un collezionismo più ricercato, nelle sue raccolte non mancarono strumenti astronomici e meccanici quali «una carta stampata del globo celestre e terrestre», alcune «mappi d’eligami celesti e terrestri che si stanno inprimendo in Roma», un «pappamundo terrestre venuto da Venetia» e ancora un «globo celeste venuto da Roma» la quale somma fu versata al principe Angelo Marino27.

Tuttavia, qui non siamo di fronte a un semplice interesse collezionistico, ma piuttosto dinanzi all’acquisto di un aggiornato materiale didattico che Ferdinando Bazán faceva giungere da tutta Italia, e forse anche da tutta Europa, per «servitio» dell’Accademia fondata nel 1687 da lui stesso, alla quale fu dato il nome dei Canonisti28.

Accanto a questi thesauri però non bisogna dimenticare la raccolta di naturalia e mirabilia che, soprattutto per un uomo religioso, costituivano le reliquie dei santi. Questi sacri resti investirono ovviamente un ambiente più ristretto, culturalmente devoto e allo stesso tempo scaramantico. Facevano bella mostra nei suoi appartamenti il reliquiario di San Pietro Martire, fatto realizzare dall’argentiere Gaspare Duro nel 169229, e il «reliquiario del sangue di San Francesco di Sales di filigrana», anch’esso realizzato nello stesso anno ma da un anonimo argentiere palermitano30.

Quanto detto basterebbe per riconsiderare la percezione di Ferdinando Bazán che sino ad ora sembrava essere stata più quella di un uomo distaccato dal contesto storico palermitano; ma invece siamo di fronte a un vero protagonista dotato di ottime sensibilità culturali, spirito di adattamento e carattere machiavellico.

Ma le sue abilità collezionistiche emergono più nel fatto di possedere un’opera di indiscusso valore per quei tempi, ovvero quella «Madonna della Pietà di Michiel Angelo Bonarrota» che il canonico Antonino Mongitore dice esser stata «portata da monsignor fondatore da Spagna»31 e che oggi vediamo collocata, per volere dello stesso arcivescovo, nell’altare maggiore della chiesa dell’Immacolata Concezione e dei Santi Pietro e Paolo annessa all’ospedale dei sacerdoti di Palermo (Fig. 3).

L’opera in questione appare interessante da molti punti di vista. La Pietà o Mater Dolorosa realizzata da Michelangelo Buonarroti, nota attraverso innumerevoli repliche derivate dall’originale, divenne sin da subito un soggetto celebre e fu reinterpretata in pittura da Marcello Venusti (Fig. 4) e da innumerevoli disegni perlopiù eseguiti da Giulio Clovio (Fig. 5). Non sappiamo però se Ferdinando Bazán seppe mai che l’originale michelangiolesco, riconosciuto oggi nella Mater Dolorosa dell’Isabella Stewart Garden Museum di Boston, fosse restato sotto forma di disegno e che l’artista ne aveva fatto dono alla marchesa di Pescara Vittoria Colonna intorno al 154032. La composizione e la pregnante novità iconografica della Mater Dolorosa era derivata, com’è noto, dall’inteso dialogo avvenuto per corrispondenza tra l’artista e la marchesa, e il tema, ovvero l’intimo momento sul dolore provato da Maria durante la passione e morte del Figlio, attingeva direttamente dall’opera in prosa, Pianto sopra la Passione di Chirsto, scritta dalla stessa marchesa in pieno clima valdesiano-ochiniano33.

Alcuni aspetti legati a questo processo creativo furono accuratamente esposti da Ascanio Condivi (1525-1574), discepolo e biografo di Michelangelo Buonarroti:

Fece, a requisizione di questa signora, un Cristo ignudo, quando è tolto di croce; il quale, come corpo morto abbandonato, cascherebbe a’ piedi della sua santissima Madre, se da due agnoletti non fosse sostenuto a braccia. Ma ella sotto la croce, stando a sedere con volto lacrimoso e dolente, alza al cielo ambe le mani a braccia aperte, con un cotal detto, che nel troncon della croce scritto si legge: Non vi si pensa quanto sangue costa!34

Prima di inoltrarci nell’argomento va premessa una considerazione non per nulla secondaria: ovvero che il dipinto palermitano, ritenuto opera originale di Michelangelo già al tempo di Antonino Mongitore sino agli eruditi ottocenteschi35 (mentre più esattamente fu assegnata alla produzione di Marcello Venusti dai contemporanei), in realtà altro non è che una copia eseguita dal pittore messinese Filippo Tancredi nel 169736 (Fig. 6). La notizia sembra tradire clamorosamente le aspettative degli storici e in particolare quelle di Vincenzo Abbate37. Certo opere originali di celebri artisti italiani ed europei erano giunte in Sicilia in tutto il Cinquecento e oltre, ma non è da escludere che la copia eseguita nel 1697 non possa essere stata esemplificata sulla base dell’opera originale posseduta dall’arcivescovo, così come afferma lo stesso Mongitore, e come sembrerebbe da un pagamento di 4 onze effettuato già nel giugno del 1686 per «una cornice dorata per la Madre di Dio delli Dolori»38.

Nella tela di Palermo, ad esempio, compaiono alcuni elementi che indurrebbero a crederlo. Innanzitutto, non è una copia pedissequa tratta da un’incisione, e la presenza della firma marcello venu f., cosa che non compare nei disegni e nelle incisioni, già da sola renderebbe attendibile l’ipotesi. Va considerato inoltre come le scelte cromatiche adottate dal copista siano piuttosto terrose e cupe a differenza delle altre varianti ritenute ormai certe di Marcello Venusti, le quali invece mostrano una tavolozza più squillante e fredda, rinvenuta successivamente attraverso attenti restauri39. È pertanto ipotizzabile, quindi, che l’autore della copia fosse stato condizionato dai toni opacizzati in cui versava l’originale nel momento in cui la riprodusse.

Il tema delle copie40, tuttavia, resta ancora oggi difficile da decifrare in virtù del fatto che questa fu una pratica molto diffusa già ai tempi di Michelangelo Buonarroti; è lo stesso ad affermarlo:

Sappiamo infatti che in Italia non esiste principe, nobile, privato, o persona di qualche importanza che, sebbene poco curiosa della divina pittura (non parlo degli spiriti d’eccezione, che l’adorano) non si sforzi di possederne qualche reliquia e, perlomeno, di tale opera non faccia fare parecchie copie, in modo da poterle più facilmente acquistare41.

Del resto per un attento collezionista, come Ferdinando Bazán, il fatto di possedere un’opera “originale” di Michelangelo Buonarroti, giustamente considerato l’artista più geniale dei suoi tempi, doveva costituire senza ombra di dubbio motivo di vanto; ragion per cui privarsene non sarebbe stata un’azione indolore. La scelta di farne eseguire una copia potrebbe essere una logica conseguenza, e del resto, come vedremo in seguito, non resterà un caso isolato. In realtà, aldilà che il dipinto possa essere una copia settecentesca, viene a configurarsi un altro aspetto interessante: ovvero il vivo interesse e il nitido orientamento culturale che in quegli anni andava a catalizzare le scelte del collezionismo palermitano in piena sintonia con i gusti europei per la pittura cinquecentesca e in particolare della stretta cerchia michelangiolesca e raffaellesca.

Ad ogni modo bisogna qui chiedersi quanto, in questo contesto culturale legato alle bramosie collezionistiche isolane, abbia potuto incidere il ruolo di Ferdinando Bazán e del suo vicario generale Francesco Girgenti nei confronti dello storiografo del Senato palermitano Vincenzo Auria (1625-1710) se quando pubblicava, nel 1698, Il Gagino Redivivo, l’opera veniva espressamente dedicata a questi due illustri personaggi. Altrettanto significativa è la scelta di riservare il capitolo finale interamente alle Memorie di Vincenzo Romano pittore palermitano, ritenendolo uno dei più eccellenti seguaci di Polidoro Caldara da Caravaggio e «degno imitatore delle grandezze romane»42.

Nondimeno, in tali temperie di sentito revival stupisce come i palermitani abbiano potuto rinunciare al famoso Spasimo di Sicilia eseguito da Raffaello e giunto a Palermo entro il 1517 per poi donarlo, dietro uno storicizzato inganno, all’avido Filippo IV di Spagna43.

Un’altra questione opaca, considerando le saltuarie informazioni documentarie, è costituita dalla tela che rappresenta San Ferdinando III re di Castiglia che implora dalla Vergine la vittoria contro i Mori (Fig. 7), che oggi vediamo all’interno della stessa chiesa nell’altare della parete sinistra44.

Nelle fonti manoscritte di Antonino Mongitore questo dipinto fu assegnato alla produzione di uno sconosciuto Vincenzo Tancredi, ma dovette trattarsi di una disattenzione dell’autore, in quanto non è nota l’esistenza di tal pittore. Nelle sue intenzioni vi era forse quella di richiamare il pittore messinese Filippo Tancredi?

Nelle Memorie degli artisti siciliani dello stesso Mongitore, opera rimasta perlopiù allo stato di abbozzo, infatti non compare una voce corrispondente a questo pittore, né d’altro canto l’opera compare nell’elenco del pittore messinese. A questo punto vien da chiedersi se l’autore intendesse piuttosto Vincenzo Marchese, l’unico pittore operate in quegli anni che abbia questo nome45. A quanto sembra, anche se qui le formule devono piuttosto allarmare, in data 24 settembre 1689, fu erogata la somma di onze 3.10 a favore del pittore Vincenzo Marche «per pittura del Santo re don Ferdinando e per mastria del Santo Christo»46.

Ad ogni modo, essendo andate totalmente perdute le opere di Vincenzo Marchese, tentare di stabilire un confronto stilistico, allo scopo di formulare una nuova attribuzione, risulterebbe problematico; ciò nonostante questo coinvolgimento amplia il quadro delle nostre conoscenze ma non tale da riuscire a dare una risposta agli interrogativi relativi al pittore palermitano.

D’altro canto, Vincenzo Marchese per la storiografia contemporanea è un pittore rimasto senza un volto, ma la sua opera fu ben nota agli eruditi; di lui, ad esempio, fa menzione lo storico messinese Francesco Susinno:

Asseriva Filippo che il predetto di Grano era un artiere miglior che lui, e però in Palermo egli veniva a lui preferito per la sua vaghezza; Vincenzo Marchesi, pittore che si era avanzato ne’ studi di Roma, gloriandosi di fare il contrapposto a Filippo, cercava oscurarlo co’ suoi rotti colori, diciamo noi attossicati, e pure non riuscendoli, ebbe per forza a danneggiare se stesso47.

Da tale giudizio negativo, nondimeno, apprendiamo alcune notizie riguardanti il pittore, ovvero quella di una formazione romana e l’altra di un’accesa rivalità con il messinese Filippo Tancredi, il che appare senz’altro stimolante soprattutto nel momento in cui i due pittori compaiono nella scena palermitana, intorno alla metà degli anni Ottanta del Seicento, che è rappresentato dalla diffusione dei modelli romani di Carlo Maratta e dell’arrivo in città del suo dipinto rappresentante la Madonna del Santissimo Rosario, realizzata per l’oratorio del Santissimo Rosario in Santa Cita48.

Il pittore che realizzò il dipinto per l’arcivescovo palesa evidenti rapporti con l’ambiente romano e con la tradizione classica di Carlo Maratta, ma se è vero che Vincenzo Marchese fu a Roma, presumibilmente nella bottega del Maratta, è possibile anche che abbia conosciuto Giuseppe Passeri, autore di un disegno (Fig. 8), oggi conservato al Ashmolean museum di Oxford49, in stretta relazione con la composizione del dipinto palermitano nel quale le figure sono sostanzialmente disposte in modo identico, ma maggiormente di scorcio.

A questo punto si pone il problema di capire se l’opera possa ritenersi o del Marchese o del Passeri.

A rendere maggiormente problematica l’attribuzione è l’assenza di note di pagamento relative a questo dipinto il che tutto farebbe supportare un’ulteriore ipotesi che Ferdinando Bazán, trovandosi a Roma prima di prendere possesso dell’arcivescovado a Palermo, abbia incaricato al pittore romano di realizzare il dipinto, quindi databile al 1686, in pieno influsso marattesco.

Di carattere diametralmente opposto appaiono le promozioni artistiche da parte di Ferdinando Bazán all’interno della Cattedrale di Palermo. Il nuovo arcivescovo non sembra mostrare alcun interesse nell’arredo interno ed esterno della principale chiesa palermitana; atteggiamento che non riflette per certi versi la parabola dei suoi ultimi predecessori, come ad esempio furono Martín de León Cárdenas, Pietro Martínez y Rubio, Juan Lozano e Jaime de Palafox y Cardona50, i quali avevano omaggiato il tempio di pregevoli manufatti liturgici e aggiunte architettoniche allo scopo di poter esercitare la devozione dei “nuovi santi”, apponendo i propri nomi all’interno di lapidi, cappelle o nelle opere stesse.

Tuttavia gli unici atti di ossequio nei riguardi della Cattedrale a noi noti sono costituiti nell’averla dotata nel 1688 di due teche porta particole, una di maggiori dimensioni e una più piccola nella quale si legge: Ill.mo Rev.mo D.no D. Ferdinando de Bazán Archep.o Pan.o Can.o D. Isidoro Navarro et D. Ignatio Termine Fabricae Praefectis 168851, oggi esposte nel Tesoro della Cattedrale di Palermo; e nell’aver fatto realizzare, entro il mese di dicembre 1692, «una sedia per servitio del Santissimo Sacramento della Maggiore chiesa»52, oggi perduta o non ancora identificata.

Se dunque comuni erano state sinora le imprese di questi antesignani, oltremodo diverse furono le azioni di Ferdinando Bazán, promuovendo invece interventi rivolti su scala urbana realizzati tra Palermo e Baida, luogo dove l’arcivescovado palermitano possedeva ormai da secoli una “casa di delizie”. Ed è proprio qui che il nuovo arcivescovo intende investire le sue finanze, forse con lo scopo di creare all’interno del palazzo di San Giovanni un centro di applicazioni scientifiche per intrattenersi in conviti e ozi umanistici?

L’antico palazzo sorgeva in una posizione privilegiata su un declino collinare dominando, allora come oggi, l’intero panorama sulla città di Palermo. Indubbiamente qui Ferdinando Bazán era solito trascorrere lunghi periodi dell’anno «ristorando le forze cadenti coll’amenità del luogo e bontà dell’aria»53 e dove poteva mettere in pratica le sue curiosità botaniche immerso nelle specie mediterranee che offriva la campagna circostante di Baida; tanto da non riuscire a privarsene nei periodi di assenza se, nel 1692, inviava un anonimo pittore «per copiare il boschetto delle montagne»54. A quell’epoca Baida di certo doveva apparire una straordinaria concinnitas tra natura e antichità e questo aspetto singolare non poteva lasciarlo indifferente. Pertanto, non sorprenderebbe che la casa delle delizie fosse stata prescelta come sede nella quale potere mettere in atto, insieme ai membri della sua Accademia, il tema della natura iuxta propria principia, introdotto a Roma nel 1565 da Bernardino Telesio.

Per ritornare sulle sue iniziative urbanistiche, il primo atto rintracciato risale infatti al 10 marzo del 1690, quando alla presenza di Bernardino Jordan, suo procuratore, e di Isidoro Mazzola, camperium et extimatorem della corte arcivescovile di Palermo, fu messo a bando «la fabrica di un nuovo ponte da farsi a bocca di falco nello loco della Saetta Senda del detto arcivescovado», la quale veniva deliberata a favore dei mastri Giovanni Giuffrida, Giacomo Baddo e Leonardo Benso «tamquam minores offerentes»55. Dai capitoli che seguono si evince chiaramente che il ponte doveva essere realizzato ex novo sopra il corso del fiume Galli nello spazio di otto anni:

e doppo cavati li detti fossi detti mastri doveranno fabricare tutto il massizzo del pidamento delli pilastri massizzi di fabrica, quali pilastri che doveranno tenere detto arco doveranno essere fatti cum soi pedamenti per infine che si trova la roccha e il sodo, e finiti detti pidamenti doverà detto stagliante esser obligato a pedichiano tamquam fare li facci delli pilastri sodi di ciacha di altezza palmi sei intagliati et acculturati di longhezza ogni pezzo almeno deve essere palmi dui e di letto palmi dui, bene e magistribilmente per ogni lato56.

Tra le altre condizioni fu sottolineato che i mastri avrebbero dovuto fare «la sua saiia che sarà canni dudici con suo madunato di tuffo sotto e sopra maduni di Termini, e sopra intuffata fatta con suoi mascillara di ogni lato palmi dui di ogni verso, pure in facci amadonato ad altezza di palmo uno»; inoltre, una volta terminata l’architettura, fare «sculpire l’armi di monsignor illustrissimo a loro spese in due parte di detto ponte»57.

Ma, oltre a questo viadotto urgeva rinnovare la strada che da Palermo conduceva a Baida. E fu così che, in data 13 maggio 1693, il magister Paolo Schillaci contraeva i suoi obblighi nei confronti del procuratore generale nel dovere:

Inchianare e mettere in chiano la strada che acchiana a Baida incominciando dallo passo di Luparello sino dove si saranno petri o terra di modo tale che l’habia di fare in piano a scarpata, cioè per la parte stretta palmi dudici di vacanti e della parte più longa per quanto al presente, e di modo tale che possa passare la carrozza con la larghezza detta di sopra per la parte più stretta e pure che la scalpata vada calando dalla parte della montagna dal principio sino all’ultimo mezzo palmo di altezza e più nella parte più commoda nella strada longa alla seconda fugha della parte che si va di Palermo habia di lasciare tanto largo che si possi trattenere una carrozza s’intanto che passi l’altra senza darsi fastidio l’una con l’altra58.­­

Per ragioni di spazio, non è possibile qui approfondire questo distinto ambito tematico, anche se l’argomento meriterebbe una maggiore attenzione.

Altre coordinate relative alle iniziative architettoniche intraprese da Ferdinando Bazán si rintracciano all’interno del palazzo arcivescovile di Palermo. La considerevole somma di «onze 981.6.3 spesi in haver fatto due giardini et un gabinetto e per havere fatto alcune pitture, seggi, buffetti, fiori, fontani e per haverci travagliato mastro muratore e mastro d’ascia»59, che stanzia senza riserva, ha il fine di promuovere una stagione di valorizzazione del palazzo arcivescovile con aggiornamenti architettonici, pittorici, scultorei, ma anche dedicando una singolare attenzione agli arredi e alla composizione di due giardini, determinandone un processo sottile di modificazione.

I due giardini sopracitati che Ferdinando Bazán fa realizzare sin da subito, avevano lo scopo di ricreare un luogo di quiete e di isolamento o forse sono il tentativo di ricondurre a Palermo ciò che di nuovo aveva potuto vedere in Spagna? I modelli dei giardini erano di matrice spagnola e la diffusione avvenne grazie al nuovo arcivescovo?

Quello delle architetture riservate ai giardini, soprattutto in questo periodo, è un tema particolarmente singolare poiché consente di paragonare linguaggi diversi rivelandone convergenze e divergenze; ma, allo stesso tempo problematico per il ridisegno e la perdita di questi interventi.

Tuttavia, non è improbabile che i giardini del palazzo arcivescovile di Palermo avessero già raggiunto una sua fisionomia con i precedenti arcivescovi e che Ferdinando Bazán a sua volta ne fece sviluppare un successivo assetto con l’inserimento di un monumentale ninfeo (Fig. 9) il quale doveva essere circondato da un contorno arboreo creato da piante ornamentali e fiori di ogni specie.

Nell’ottobre del 1691, apprendiamo che lo stuccatore Baldassarre Infantollino, per un compenso complessivo di onze 27, si sarebbe obbligato nei confronti di Bernardo Jordan a:

guarnire tutto lo disegno della nova fontana grande al muro del piccolo giardino di monsignor illustrissimo nel palazzo di monsignor illustrissimo d’opera di stucco e croccoli e balata di Genova sopra li cornicioni quanto è di bisogno e tutta quella quantità di raffo è di bisogno di sopra detta fontana per lo spandente dell’acqua per livarla di piriculo il tutto della fontana e di più di fare li colonni pilastri grossi e statua di Nettuno con suo tridenti di stuccho conforme anche fare un delfino sotto li piedi di Nettuno et ultimamente accomodare le petre lambichi per onde va l’acqua et ultimamente spedire quanto è bisogno in detta opera giusta la forma del disegno fatto da don Paulo Amato firmate tanto da detto Infantollino quanto di detto d’Amato ingegnere60.

L’architetto che assunse l’onere della progettazione fu Paolo Amato, mentre, alla stessa data, lo scultore, Giuseppe Ragusa si sarebbe obbligato a realizzare le «dui fontani et armi mesi fatti nello giardinello piccolo ordinati dal sacerdote don Paulo Amato»61.

La novità di questo ninfeo62 consiste nell’invenzione di una scenografica macchina cadenzata da intrecci “bizzarri”, in cui si fondono e contrastano elementi compositivi, non privi di diversificazioni cromatiche dovute all’impiego di materiali diversi. Allo stesso modo si intrecciano parti architettoniche e plastiche, complesse e chiaroscurate, riscontrabili nelle volute e nelle colonne. In tutti questi elementi si sfumano i confini tra architettura e natura, da una parte artificiale e dall’altra spontanea, per restituire all’opera un’espressiva unità organica.

In diverse occasioni la complessità culturale di Paolo Amato è stata in gran parte approcciata63, ma in questa sede occorre mettere in rilievo l’inedito rapporto intercorso tra l’architetto e il presule.

Tuttavia sorge spontaneo l’interrogativo se la committenza di Ferdinando Bazán e il ruolo di Paolo Amato vada inteso quale semplice ricorso a un qualificato architetto, ben noto sulla piazza palermitana, o se invece celi un disegno ben più complesso, tenuto presente che le opere eseguite per conto del porporato costituiscono solo una parte della poliedrica attività di Paolo Amato, e che quindi bisognerà capire quali possano essere stati i filoni alternativi prevalenti e la sua posizione politica nei confronti dell’arcivescovo.

Grazie ad una serie di notizie inedite individuate proprio nel rendiconto degli introiti ed esiti personali di Ferdinando Bazán, è ora possibile aggiornare le conoscenze intorno alla sua committenza e di osservare da vicino le dinamiche culturali: i documenti, infatti, forniscono precisazioni e novità su tempi, cantieri e personalità coinvolte.

Sulla validità e sul prestigio non vi è dubbio che l’arcivescovo prescelse come suo architetto il sacerdote don Paolo Amato affidandogli la direzione dei lavori intrapresi all’interno del palazzo arcivescovile. Di fatto, sulla scelta dell’architetto, si può avvertire chiaramente una problematica, nella quale dovette imporsi una certa strumentalizzazione politica e diplomatica. Comunque, se si trattò di contraddistinguere un discorso politico e nello specifico culturale, era ben evidente quale fosse l’opzione privilegiata a Palermo in quegli anni; e di certo un architetto noto come Paolo Amato, del quale tuttavia a Palermo non si era mai messo in discussione il suo talento nella disciplina della matematica e per il disegno architettonico, né l’importanza del suo lavoro svolto da più di vent’anni per il Senato, rappresentava l’eccellenza.

Se andiamo oltre gli aspetti di natura contingente, si riescono a percepire le aspettative logiche che nutriva Ferdinando Bazán di potere concludere in modo brillante la sua carriera ecclesiastica. Quello che qui preme sottolineare non sono tanto le qualità dell’architettura aulica di Paolo Amato o del suo modo grandioso di concepire l’architettura, aspetti del tutto noti e decisamente prevedibili, tanto il desiderio dell’arcivescovo di sviluppare finalmente un edificio in accordo con la politica pontificia imposta con forza in quegli anni dai papi Innocenzo XI Odelaschi e Innocenzo XII Pignatelli.

Il 27 febbraio del 1692 invece è documentato l’intervento del pittore messinese Filippo Tancredi, il quale riceveva onze 16 a completamento di onze 58 «per la pittura dell’oratorio della Coronattione della Vergine, et uncias 40 per la pittura delli dui fonti, uno di Moisè et altro dello Mascarone, e la pittura delli cinque Santi Padroni di Palermo nel cielo della camera di 4 venti, et uncias 2 per havere fatto d’avantaggio di quello havea d’obligatione et accordio fatto per uncias 56»64; mentre in data 31 maggio 1695, è documentato un pagamento di onze 6.23 a favore di Filippo Tancredi, il quale, insieme al pittore Domenico di Messina, aveva «pinto un ritratto di monsignore illustrissimo sopra balata di Genova nella camera delli 4 venti e per havere conciato diverse pitture in detta camera»65.

A distanza di tre anni, il 25 aprile del 1698, ancora una volta Filippo Tancredi riceveva da Bernardo Jordan un compenso di 3 onze per «per havere fatto un ritratto di monsignore illustrissimo per ponersi nello thesauro della madre chiesa»66 che potrebbe, con molta probabilità, identificarsi con il ritratto oggi esposto nelle sale del Museo Diocesano di Palermo (Fig. 10).

Un altro aspetto della vita dell’arcivescovo che non va sottovalutato fu lo strumento strategico della sua politica culturale rappresentato dai doni diplomatici e dalla gestione delle opere d’arte, ritenuti il più delle volte dei veri e propri “affari di Stato”, che miravano ad affermare la supremazia della politica imperiale.

A conferma di questa sua strategia, fra le sue spese sovente si ritrovano pagamenti per doni inviati ad arcivescovi e prelati di tutta la Sicilia, ma non solo.

Nell’aprile del 1693, in particolare, risulta un pagamento di onze 53.22 per aver fatto realizzare, ancora una volta all’argentiere Domenico Falco, un reliquiario di Santa Rosalia «mandato da monsignore illustrissimo alla Regina Madre» di Spagna67, andato perduto o non ancora identificato; mentre nel dicembre del 1695, fu erogata la cifra di onze 19.14.5 all’argentiere Andrea Mamingari, pagata dal canonico don Francesco Marchese, «per il prezzo di un calice regalato da monsignor arcivescovo a monsignor vescovo di Siragusa»68.

Ferdinando Bazán, adesso, sembra essersi inserito a pieno nel mondo curiale, ma a turbare gli eventi, durante la sua carriera ecclesiastica, fu una delle catastrofi più terrificanti mai registratasi sino ad allora nell’intera Sicilia, il fatidico terremoto del gennaio del 1693, precisamente nei giorni 9 e 11, che con una serie di scosse violente devastò più di quaranta città nella zona Sud-Orientale, anche se la sua eco fu avvertita, con minor intensità, anche a Nord-Ovest e in particolare a Palermo.

Il canonico Mongitore, a riguardo, ne fece una consistente narrazione nei suoi Diari e in particolar modo di come Ferdinando Bazán, durante il drammatico evento, intervenne nel dar conforto ai fedeli nella loro condizione di improvviso sconvolgimento e «per placare l’ira divina».

Monsignor arcivescovo di Palermo, dal sentire la deplorabile rovina di tante città e terre del regno, riconoscendo la grazia fatta dalla divina bontà alla città di Palermo, alla quale non accadde che lieve danno alle fabriche e nessuno alle persone, fece risoluzione di manifestare con publica dimostrazione l’obligo per la ricevuta grazia. Si che fece adornare con ottimo apparato il duomo, e in questo giorno celebrò ponteficalmente messa votiva di S. Rosolia in rendimento di grazie alla Santa, come speciale protettrice della città, per la cui intercessione riconobbe la grazia; avendo ne’ giorni antecedenti sempre celebrato privatamente nella cappella della Santa, che si tenne sempre aperta con buon numero di candele accese e con concorso di popolo69.

In questo contesto, di «devozione novamente accresciuta»70 verso la santa patrona di Palermo, il 20 luglio del 1693 l’arcivescovo incaricava il suo procuratore di far realizzare una statua lignea della santa, alta due palmi e con piedistallo, dunque per farne uso privato, allo scultore Alberto Orlando, la quale «detta statua habbia di essere di legname di tiglio e che s’habbia da fare conforme è il modello del designo fatto di crita da detto d’Orlando e che s’habbia da fare di tutto punto finita con sua incarnatura fina alla facci et alle mani e la veste, e la veste e manto di detta gloriosa Santa Rosalia habbiano da essere travagliati sottili et uniti delicatamente, e doppo rabiscati e dipinti del color della veste che tiene la gloriosa Santa di color fino rabiscati d’oro di crochiula fino e lo pedistallo toccato d’oro imbornuto al maggior segno attratto e magisterio della scoltura con che detta statua finita che sarà di tutto punto come si è detto habbia da essere benvista tanto a detto di Jordan quanto al reverendo sacerdote don Paulo Amato»71.

La chiesa dell’Infermeria dei Sacerdoti sotto il titolo dell’Immacolata Concezione e dei santi apostoli Pietro e Paolo

Se in buona parte è vero che l’autocelebrazione di un pontefice o di un arcivescovo o di un qualsiasi altro ecclesiastico si rappresentava sovente attraverso la declinazione del fare artistico, il movente spirituale, o forse più precisamente l’intima fusione tra potere temporale e potere religioso, non sempre fu motivato da una vera fede/devozione, ma piuttosto di una ragionevole convenienza.

L’operato dell’arcivescovo Bazán trovò, grosso modo negli ultimi anni del suo governo, una forte rispondenza nella «sua singolar carità», alla pari di un San Carlo Borromeo, nel volersi spendere per il bene dei sacerdoti “sventurati”, e dunque «volle fondare uno spedale per li sacerdoti infermi, e riparare all’indecenza che si vedeva in Palermo, ove i sacerdoti poveri nell’essere infermi eran costretti a curarsi ne’ pubblici spedali con poco decoro della lor dignità»72.

Intorno al desiderio di fabbricare un ospedale per i sacerdoti di Palermo con una chiesa annessa, che senz’altro rappresentò dalla solenne posa della prima pietra la più grande impresa artistica di Ferdinando Bazán, non molto si è scritto.

Stando alle testimonianze di Vincenzo Auria73, e più tardi di Antonino Mongitore74, l’ospedale fu costruito in continuità con le fabbriche del palazzo arcivescovile in una casa “grande” un tempo posseduta da Giuseppe Sciacca, poi avuta a censo dai marammieri della Cattedrale di Palermo per un canone annuale di onze 6575.

E in questo luogo sotto la cura dello stesso arcivescovo fece i suoi progressi lo spedale, poiché egli vi esercitava con segnalata esemplarità gli atti della sua fervente carità, servendo i sacerdoti infermi, anche in ginocchio, e a suo esempio molti sacerdoti vi concorrevano a servirli. Indi per ingrandimento dell’opera vi fabbricò la chiesa e a 31 marzo del 1697 gittò ne’ fondamenti la sua prima pietra, solennemente benedetta, il padre Francesco Girgenti palermitano della congregazione dell’Oratorio, allora suo vicario generale, poi vescovo di Patti, e intervenne lo stesso arcivescovo assiso nel solio ivi eretto, assistito da’ canonici, e pose nel luogo ove fu collocata la prima pietra diverse monete, fra le quali alcuni trionfi, moneta novamente battuta nella Zecca Real di Palermo76.

Alcuni documenti riguardanti la chiesa sono stati resi noti sulle singole azioni da Filippo Meli77, dando contezza di nomi, collaboratori, date, relazioni; ma ad oggi si è ha mai fatta attenzione allo spirito con il quale l’arcivescovo palermitano intese far realizzare l’intera opera.

Nello scudo posto al centro dell’arco trionfale vi è annunciato il segno profetico che si esprime compiutamente nel motto UMBRA OBUMBRARET, estratto dal versetto 5.15 degli Atti degli Apostoli: «ita ut in plateas eicerent infirmos et ponerent in lectulis et grabattis ut veniente Petro saltim umbra illius obumbraret quemquam eorum» (tanto che portavano gli ammalati persino nelle piazze, ponendoli su lettucci e barelle, perché, quando Pietro passava, almeno la sua ombra coprisse qualcuno di loro).

Da pastore zelante e uomo di pietà, generoso e instancabile nella sua missione, l’arcivescovo intese pertanto far realizzare un edificio permeato da un forte significato metaforico legato alla guarigione dei sacerdoti infermi e, attraverso simboli e allegorie, di riuscire ad esprimere al meglio il miracolo della salvezza.

Seppur di modeste dimensioni, la nuova chiesa si presenta come un esito colto della progettazione persuasiva o, se vogliamo, un connubio equilibrato tra autentico sentimento religioso e capacità di controllo della percezione dell’opera, al fine di realizzare così quel programma di comunicazione umana.

Il cantiere religioso contiene in sé una somma di tante parti autonome, dove non mancano riprese di temi che appartengono alla “tradizione” come nel caso dell’arco trionfale, ma ideate con una capacità di sottrarsi a qualunque tentazione di ingenuità.

Partendo dall’arco trionfale (Fig. 11), quindi dalla zona del presbiterio, dato in appalto il 2 aprile del 1698 allo stuccatore Vincenzo Messina e da realizzarsi secondo i disegni e sotto il controllo dell’architetto Paolo Amato78, si può notare una ripresa di alcuni temi legati a un classicismo di primo Cinquecento soprattutto in quella dichiarata volontà di attingere ai repertori del «gruttisco et rabisco, panni et altri che sarà ordinato et stucchiarci li fundi delli pilastri di gruttisco ad usanza di Gagini»79 ma, allo stesso tempo, una capacità di introdurre la vivace complessità del linguaggio sperimentale di Paolo Amato.

Anche se la composizione dell’intero presbiterio era stata studiata nel dettaglio dall’architetto, il quale tende a mettere in evidenza, all’interno degli aspetti compositivi, l’importanza della tematica decorativa, le capacità tecniche ed espressive di Vincenzo Messina però fanno capolino.

Quello che colpisce di più è lo strano squilibrio di scala che avviene tra le due figure angeliche, realizzate più o meno a grandezza naturale – i quali reggono rispettivamente un medaglione o “teatrino” contenente in una la conversione di San Paolo e nell’altro la consegna delle chiavi a San Pietro -, e le statue dei Santi apostoli Pietro e Paolo, collocate nella parete di fondo ai fianchi della pala d’altare, compiute con una sproporzione alquanto evidente.

Vien da chiedersi se qui l’intento di Paolo Amato fosse stato di introdurre qualcosa di nuovo o se l’opera realizzata parallelamente da Giacomo Serpotta e dal suo stretto collaboratore Domenico Castelli «con farci tutte quelle figure, pottini, architettura, fogliami, fiorami con suoi mensoli et altro secondo il disegno fatto per detto di Serpotta», dunque solamente approvato da Paolo Amato, in qualche modo abbia creato uno squilibrio.

La distribuzione interna, la regolarità dell’impianto, il linguaggio adottato, la ricca e complessa decorazione, dunque, mostrano chiaramente, seppure in una rigorosa distribuzione di competenze e attente gerarchie, la diversità delle matrici creative che contribuirono a connotare il nuovo edificio ecclesiastico. Dunque, qui si avverte un fare nuovo che appartiene però alle idee progettuali e compositive di Giacomo Serpotta, che dal disegno ai modelli, all’opera compiuta si genera un’instancabile ricerca di varianti e di messe a fuoco progressive.

All’interno di un disegno complessivo improntato da una estrema, seppur grandiosa linearità, l’impronta di Giacomo Serpotta deve ricercarsi soprattutto in alcune raffinate soluzioni di dettaglio, e nell’abile inserimento dei due altari nella sobria intelaiatura della navata.

Il disegno architettonico ideato da Serpotta è uno dei punti più alti della sua sperimentazione plastica attuata nella sua carriera e raggiunge contemporaneamente due risultati significativi per l’estetica del periodo. La prima, che è specifica della poetica serpottiana, tenta di congiungere strettamente l’architettura e la scultura sviluppando al massimo le possibilità che la tecnica plastica offriva nella soluzione di apparati decorativi tridimensionali facendo risaltare le figure a rilievo. La seconda è quella di capovolgere i rapporti tra architettura e scultura, cercando di raggiungere nella seconda il maggior distacco possibile dalla tessitura statica dell’architettura; in poche parole, si crea tra le raffigurazioni in massa plastica un’integrazione con l’architettura, in quanto legata indissolubilmente ad essa, ma contemporaneamente da questa cercano di distaccarsene andando apparentemente contro le leggi fisiche e tentano di esprimere una loro autonomia.

In un’ultima analisi, l’opera – come fu notato da Filippo Meli80 – si qualifica soprattutto per il sottile equilibrio tra le parti e la grande eleganza complessiva, secondo uno spirito che è comune a realizzazioni di lui contemporanee, come l’oratorio del Santissimo Rosario in Santa Cita e di San Lorenzo. Al tempo stesso, non mancano pratiche singolari, tra questi spiccano quattro piccoli inserti paesistici con elementi di architetture classiche posti nei riquadri al di sotto delle finestre, creando una sorta di artificioso chiaroscuro.

Quando vennero pubblicati nel 1934 da Filippo Meli i suoi studi su’ La vita e le opere di Giacomo Serpotta, la posizione dell’autore verso l’opera dell’artista palermitano fu spesso coerente, anche se in quegli anni prevalevano ben altri criteri. Senza dubbio Meli fu il primo a porre l’ardua questione che riguardava da un lato all’autonomia progettuale e dall’altro la diversa qualità scultorea dello stuccatore palermitano.

È interessante, oltre a tutto, rilevare il fatto che Ferdinando Bazán, o forse il suo iconografo, abbia scelto di fare inserire, ai fianchi dell’altare di San Ferdinando, la divinità profana di Ercole, in due aspetti ben diversi, ovvero in lotta con il leone di Nemea, quasi a voler esaltare il valore dimostrato da San Ferdinando contro i Mori, e in riposo (Fig. 12), ossia nel momento in cui l’eroe sta deponendo l’arma dopo aver tagliato la pelle del leone con i suoi stessi artigli (i soli in grado di penetrarlo).

Nelle prescrizioni iconologiche di Cesare Ripa, Ercole fu per eccellenza l’eroe della pompa muscolare, simbolo della forza, dell’astuzia e sogno d’immortalità, qualità che si addicono forse più alla proiezione di uomo al culmine del suo prestigio, ma, non possiamo negare che fu anche il simbolo della salvezza, così come lo definì Panofsky: l’artista medievale «ha trasformato il racconto mitologico in un racconto di salvezza»81.

Ben diverso fu il tema della decorazione ad affresco affrontato nella volta della chiesa (Fig. 13) dal pittore Filippo Tancredi  in stretta connessione con la ricerca spaziale sperimentata largamente da Paolo Amato, dove trova nella finta architettura e negli ornati in finto stucco, un’accentuazione particolarmente intensa e innovativa, che la differenzia dalle altre opere del suo contemporaneo Giacomo Amato; dal quale veniva invece utilizzata in connessione più diretta con la struttura architettonica degli invasi spaziali o con le articolazioni degli ordini architettonici.

Il passaggio cruciale nel 1686 del pittore messinese a Palermo dovette costituire alla formazione di un nuovo gusto nella capitale del regno. Per quanto i principali episodi del pittore siano piuttosto noti, bisogna riconoscere che finora gli studi hanno sempre considerato ogni tappa a sé stante, e il suo soggiorno palermitano rimane per molti aspetti problematico e poco indagato, talvolta esaminato con poca attenzione al quadro complessivo e con il rischio di vistose distorsioni82.

La decorazione pittorica fu data in appalto il 25 maggio del 1698 per un compenso complessivo di onze 90. Il pittore qui doveva rappresentare il tema mistico dell’Assunzione di Maria fra i santi apostoli Pietro e Paolo e fare «di quella pittura, disegni, personaggi, architettura, pottini et altri giusta la forma del disegno fatto et con farci tutte quelle altre figure che ordinerà monsignor illustrissima, et con farci anche una balaustrata attorno immediate sopra il cornicione trattizzata d’oro fino con otto tabelloni et fare tutto quello et quanto richiede l’arte, benvista tutta detta opera a detto illustrissimo arcivescovo et suo procuratore generale»83.

Il tema mariano si sviluppa secondo una direttrice ascensionale, oggi in parte illeggibile a causa di vistose lacune, avvolto da una luce dorata che dal centro si irradia verso la sequenza degli angeli, dei due santi apostoli, delle sante vergini palermitane – Agata, Ninfa, Rosalia, Oliva, Cristina – e delle figure femminili allegoriche della Speranza e della Fede Cattolica, di impronta arcadica, le quali dominano la scena esibendo i loro attributi iconografici.

La tecnica pittorica unisce meticolosamente le masse volumetriche, definisce i panneggi e li modella attraverso la stesura di decise e sottili pennellate intrise di luce, soluzione che concede ai soggetti rappresentati una certa leggerezza.

Il carattere del pittore, dotato di grande versatilità d’ingegno, emerge soprattutto all’interno delle otto quadrature a finto stucco adottate per l’inserimento dei santi vescovi palermitani. Filippo Tancredi, al di là della dipendenza dai prototipi di Luca Giordano e Paolo De Matteis, evidenziati da Citti Siracusano, che la indussero a dire che l’opera mancava «di un vero e proprio tessuto connettivo»84, in realtà riesce a personalizzare i notissimi esempi di pitture illusionistiche romane e venete, raggiungendo qui esiti estremamente moderni.

Contemporaneamente agli affreschi della volta, Filippo Tancredi portava avanti altre commesse per conto dell’arcivescovo. Il 3 maggio del 1697, infatti, al pittore veniva pagata la somma di 6 onze «per havere fatto un quadro di Santa Rosalia copia originale del Vannicchi per servitio della nova chiesa dell’infirmaria delli reverendi sacerdoti di questa città»85 (Fig. 14), opera già ritenuta originale da Glück e Zeri86; mentre, il 21 dicembre dello stesso anno, il medesimo pittore riceverà ancora un importo di 5 onze per aver dipinto «due quadri di tre e dui e menzo cioè uno di San Giuseppe e l’altro di Santa Anna fatti per detto di Tranchedi per servitio di monsignor illustrissimo»87, oggi irreperibili.

La scelta di dedicare un altare alla Santa Rosalia all’interno della nuova chiesa, acclamata protettrice di Palermo per il suo operato salvifico contro la peste del 1624, deve poco stupire considerato l’ambito propagandistico di mettere in rilievo il messaggio legato alla salvezza. Come si è visto, nel 1693 era stato lo stesso arcivescovo a invocare la santa per renderle omaggio della mancata distruzione della città di Palermo durante il terremoto del 1693, glorificandola con messe solenni, ma del tutto singolare, invece, appare la scelta iconografica del quadro che raffigura la santa eremita incoronata dagli angeli a intercedere per la città di Palermo, eseguita sull’originale del celebre Anton van Dyck.

Le formule notarili, del resto, indicano che Filippo Tancredi eseguì la tela da una «copia originale del Vannicchi», è dunque plausibile chiedersi se l’arcivescovo avesse tenuto anche questa volta per sé l’originale?

Le successive imprese artistiche furono invece mirate per il perfezionamento e il funzionamento della chiesa. Il 4 luglio del 1698 i marmorari Antonino e Carlo Romano, padre e figlio, si obbligavano nei confronti di don Ignazio Celestino a «fare tutta quella quantità di scaluni che saranno di bisogno per servitio dela chiesa, cappellone, altare et altri» benvisti al sacerdote don Paulo Amato88. Il 21 luglio dello stesso anno, invece, lo scultore Gioacchino Vitagliano, cognato di Giacomo Serpotta, per un prezzo complessivo di 37.10 onze, si obbligava con Bernardino Jordan a realizzare la balaustra dell’altare maggiore89. Il giorno seguente veniva erogata a Michele Mirabella la somma di 25 onze per avere realizzato un «gallone et passamano di oro che ha di fare per guarnire li casubuli e palii della cappella di San Ferdinando re di Castiglia»90; mentre ancora, alla stessa data, Pietro Vaccarino riceveva la somma di onze 10 per «un disco di altare che ha di fare per la chiesa dell’infermeria di osso di tartuca historiato di argento con mettere nel mezo la statua di San Ferdinando e perfilato di oro macto con circolarlo per contorno di ebbano negro con adornarlo dell’istessa materia nella faccita che viene sotto il messale et tutto il resto del disco ha di esser di sandalo rosso che servirà adoranto di rabischi secondo l’arte ad electione di detto Jordan»91.

Seguirono i pagamenti all’argentiere Giacinto Amodei per una lampada92, d’un calice93 e per sei vasi d’argento per servizio dell’altare di San Ferdinando94, agli ebanisti Giovanni Battista Calì e Stefano Artale, autori delle due cantorie poste nei fianchi dell’altare maggiore95; mentre ancora, il 27 Luglio, lo stazzonaro Cosimo Gurrello e il pittore Lorenzo Golotta, si obbligavano a «farci a tutte spese di attratto e mastria di detti obligati tutta quella quantità di maduni di Valentia che saranno di bisogno per ammodonare la chiesa dell’infermeria delli reverendi sacerdoti di questa città giusta la forma dell’immostra che tiene in potere detto di Giordan, quali maduni detti obligati habbiano di fare bene e magistribilmente conforme richiede l’arte che siano piani e non abbozzati ben coloriti, et il stagno che sia bianco e ben colorito giusta la sopradetta forma di detta mostra e disegno»96.

Ridotta a perfezione la chiesa a 11 decembre 1698 fu benedetta dal sudetto padre Francesco Girgenti, e a 14 dello stesso mese ed anno, terza domenica dell’Avvento, si aprì pubblicamente coll’introduzione delle Quarant’ore della città. Cantò pontificalmente la messa lo stesso arcivesvovo, co’ soli canonici assistenti, poiché l’angustia del luogo non fu capace del capitolo della Cattedrale, ma vi fu concorso di nobili invitati, e s’espose con sontuoso apparato il Santissimo Sacramento97.

Quando fu terminata la chiesa, per Ferdinando Bazán cominciò un lungo periodo di sofferenze causate dall’età avanzata; come se avesse individuato nel limite temporale della sua esistenza il tempo utile per poter ammirare i frutti dei suoi sacrifici. In quegli anni di malattia, così come scrive Mongitore, Ferdinando Bazan ricevette diverse visite da parte di colui che avrebbe preso, fra qualche anno il suo posto, Giuseppe Gash, il quale, come riferisce Mongitore, «fu cortesemente accolto, e in segno di stima, ed amorevolezza, fu da lui portato per tutto il palazzo arcivescovale, e giardino, per fargli osservar quanto vi fosse di memorabile»98; ma ancora, scrive l’erudito:

nel 1699 come s’ha riferito, fu visitato da D. Ferdinando Bazan allora arcivescovo di Palermo, che avanzato in età, e aggravato dall’infermità, priegó i padri del convento di S. Oliva, di non fargli salire le scale, ma che si compiacesse il Generale di ricever la visita in qualche luogo del chiostro a terra piana: fu per tanto scelta la sagristia; e mentre l’arcivescovo parlava col generale Gasch un de’ padri del convento, oggi ancor vivente (il cui nome taccio) ebbe un interno movimento, che fu spinto a manifestarlo, in maniera, che fu udito da’ padri assistenti: disse egli: La mitra dell’arcivescovo di Palermo passerà sul capo del nostro Padre Generale, come poi s’avverò in quell’anno 170399.

  1. G. Gimma, Elogj accademici della società degli spensierati di Rossano, Napoli 1703, p. 35.[]
  2. G. Gimma, Elogi…, p. 36.[]
  3. Ibidem.[]
  4. A. Mongitore, Diario palermitano in cui sono state notate le cose più memorabili accadute nella felice e fidelissima città di Palermo, capo e metropoli di Sicilia dall’anno 1680, di Antonino Mongitore, BCPa, manoscritto del XVIII secolo, Qq_C_65, ff. 67-68.[]
  5. G.M. Amato, De principe templo panormitano, Palermo 1728, p. CLXXVI. La notizia del Battesimo, così come scrive l’autore, gli fu riferita il 22 novembre 1725 dal parroco Paolo Reggio.[]
  6. G. Gimma, Elogi…, p. 37.[]
  7. Ibidem.[]
  8. A. Mongitore, Istoria cronologica degli arcivescovi della Metropolitana Chiesa di Palermo, scritta da don Antonino Mongitore, canonico di detta chiesa, giudice sinodale, consultore, e qualificatore del Santo Ufficio. Parte seconda. BCPa, manoscritto del XVIII secolo, Qq_D_6, f. 749. Cfr. R. Pirri, Sicilia sacra disquisitionibus et notis illustrata, in Palermo apud aeredes Petri Coppulae 1733, pp. 258-266.[]
  9. A. Mongitore, Diario palermitano…, ff. 67-68.[]
  10. A. Mongitore, Diario palermitano…, f. 67.[]
  11. A. Mongitore, Diario palermitano…, ff. 68-69.[]
  12. L’arcivescovo Palafox fu trasferito in Siviglia, dove rimase fino alla morte avvenuta il 2 dicembre 1701. Cfr. G.A.G. Guadagna, Inquietudini religiose e legami mai sciolti. La committenza dell’Arcivescovo Jaime Palafox e Cardona tra Palermo e Siviglia, in Maggio di Seta. Trame di seta tra la Spagna e Palermo, a cura di M. Vitella e G. Lo Cicero, Palermo 2021, pp. 85-100.[]
  13. Cfr. M. Giuffrè, Palermo delle utopie: audacia dell’effimero tra Seicento e Settecento, in Una vita per il patrimonio artistico: contributi in onore di Vincenzo Scuderi, a cura di Elvira D’Amico, Palermo 2013, pp. 81-82; M. Giuffrè, Città, architettura, decorazione: l’unità delle arti e i manifesti della modernità, in Giacomo Serpotta e il suo tempo, catalogo della mostra a cura di Vincenzo Abbate, Cisinello-Balsamo 2017, pp. 22-33.[]
  14. Le architetture effimere progettate da Paolo Amato sono state incise dallo stesso architetto e pubblicate in M. Del Giudice, Palermo magnifico nel trionfo dell’anno 1686. Rinovando le feste dell’inventione della gloriosa sua cittadina S. Rosalia osservato, e descritto dal P.D. Michele Del Giudice casinese. All’illustrissimo Senato, in Palermo per Tomaso Rummulo 1686.[]
  15. Il codice manoscritto, scoperto da Cesare de Seta, si trova a Madrid, Biblioteca de Asuntos Exteriores y Cooperación de España, ms. 3, ed è stato pubblicato per la prima volta da V. Consolo, C. De Seta, Sicilia teatro del mondo, Roma 1990. Sulla genesi dell’opera, sulla sua compostone e sulle diverse attribuzioni nel quadro della storia della cartografia manoscritta per la Sicilia, cfr. V. Manfrè, La Sicilia de los cartógrafos: vistas, mapas y corografías en la Edad Moderna, in Anales de historia del arte, 2013, pp. 79-94.[]
  16. Cfr. M. Fagiolo, L’illusione dell’infinito tra architettura e pittura: Pietro da Cortona, Baciccio, Pozzo, in M. Fagiolo, Roma Barocca. I protagonisti, gli spazi urbani, i grandi tempi, Roma 2013, pp. 567-606. Per una ricognizione generale sull’arte barocca cfr. R. Enggass, La Chiesa trionfante e l’affresco della volta del Gesù in Giovan Battista Gaulli il Baciccio 1739- 1709, catalogo della mostra, a cura di M. Fagiolo, D. Graf, F. Petrucci, Milano 1999, pp. 27-39.[]
  17. Archivio di Stato di Palermo, d’ora in poi ASPa, fondo notarile, stanza III, notaio Pietro Nunzio Serio, vol. 3476. In questo volume sono stati allegati tutti gli introiti ed esiti dal 1686 al 1697 per conto di Ferdinando Bazán e registrati dal suo procuratore Bernardo Jordan. Durante tutto il suo mandato l’arcivescovo distribuì giornalmente pane, scarpe, cure e altro ai poveri della città di Palermo, come si legge nel minuzioso rendiconto delle sue spese. Questa tematica fu introdotta con forza come risposta ai papi dissipatori, che poco si erano interessati dell’erario dello Stato, dai papi Innocenzo XI Odelaschi (1676-1689), successivamente beatificato, e da Innocenzo XII Pignatelli (1691-1700); i quali riconobbero come funzione fondamentale dello Stato della Chiesa quella di occuparsi dei poveri. Durante questi pontificati fu affermato che il patrimonio della Chiesa apparteneva esclusivamente ai poveri. Cfr. G. Curcio, Il buon governo e la pubblica felicità: architetture per la città e lo stato, in Storia dell’architettura italiana. Il Settecento, a cura di G. Curcio e E. Kieven, 2 voll., Milano 2000, I, pp. XI-XXXVII.[]
  18. ASPa, fondo notarile, stanza III, notaio Pietro Nunzio Serio, vol. 3476. Nei suoi conti vengono registrate spese di alberi, piante, fiori, come anche di uccelli. In alcuni casi li riceveva sotto forma di doni.[]
  19. ASPa, fondo notarile, stanza III, notaio Pietro Nunzio Serio, vol. 3476, c. 1046v. «A 4 settembre (1692) onze 1.5 pagati per haver fatto inquadernare dorare e mettere fibbii al libro d’Abbram Ortelio; onze 1.5 A 9 dicembre (1692) tarì 20 pagati per il prezzo di certi libri del pane quotidiano opera del Padre don Francesco Marchese; tarì 20».[]
  20. ASPa, fondo notarile, stanza III, notaio Pietro Nunzio Serio, vol. 3476, c. 1100r. «A 6 giugno (1693) onza 1 prezzo di 5 tomi della filosofia del Gulduccio per servitio di monsignore pagati al padre Lucchesi; onza 1».[]
  21. ASPa, fondo notarile, stanza III, notaio Pietro Nunzio Serio, vol. 3476, c. 1221v. «A 4 novembre (1695) onze 2.19 pagati a don Antonio Giardina libraro prezzo di cinque tomi del Padre Mamiliano Sandei per servitio di monsignor illustrissimo come per apoca in notar Serio; onze 2.19».[]
  22. Nei conti sono continuamente annotate le spese per l’acquisto di cacao e spezie da parte dell’arcivescovo. ASPa, fondo notarile, stanza III, notaio Pietro Nunzio Serio, vol. 3476, c. 637v. «A detto (23 luglio 1688) mi faccio exito di onze 22.28.10 pagati cioè onze 15.15 per prezzo di rotuli 50 di cacao, onze 4 tarì 28.10 per rotuli 49 di zuccaro, tarì 4 per macerare le spetie delle chiucculata e tarì 2.11 pagati a Micheli Fernandes che travagliò giorni setti per fare la chioccolata; onze 22.28.10». Per l’argomento cfr. C. Conforti, Ozi fiorentini e devozione spagnola nella villa dell’Ambrogiana, in Mercedes Gómez-Ferrer, Yolanda Gil Saura (a cura di), Ecos culturales, artísticos y arquitectónicos entre Valencia y el Mediterráneo en Época Moderna, pp.15- 43, in part. n. 25-26 e relativa bibliografia.[]
  23. ASPa, fondo notarile, stanza III, notaio Pietro Nunzio Serio, vol. 3476, c. 541v. «A detto (4 febbraio 1687) mi faccio esito di tarì 23 pagati per prezzo di tanto tabbacco del Brasil comprato per servitio di sua illustrissima; tarì 23».[]
  24. Sull’argomento si rimanda a diversi contributi scritti dall’autore, in particolare Wunderkammer siciliana: alle origini del museo perduto, catalogo della mostra a cura di Vincenzo Abbate, Napoli 2001; V. Abbate, La grande stagione del collezionismo Mecenati, accademie e mercato dell’arte in Sicilia tra Cinque e Seicento, Palermo 2011.[]
  25. ASPa, fondo notarile, stanza III, notaio Pietro Nunzio Serio, vol. 3476, c. 522r. «A 18 detto (maggio 1686) mi faccio esito di onze quattro tarì 20 pagati per prezzo di dui cornici dorati per li retratti delli signori Re e Regina; onze 4.20»; c. 524v. «A detto (19 giugno 1686) mi faccio esito di onze quattro pagati per prezzo di una cornice dorata per la Madre di Dio delli Dolori; onze 4»; c. 589v. «A 26 detto (novembre 1687) mi faccio exito di onze 2.2 pagati cioè onze 2 per mastria della fattura del Santo Christo Crocifisso d’avolio con suo titulo e morte e tarì 2 pagati al menzano che portò detto Santo Christo; onze 2.2»; c. 591v. «A 20 detto (dicembre 1687) mi faccio exito di onze 22 pagati a mastro Petro Antonio Senaturi per prezzo di dui immagini di corallo una della Madre di Dio della Annuntiata et altra di Santa Rosalia con suoi pedi di corallo per servitio di sua reverendissima, apoca in notar Giuseppe Furno; onze 22»; c. 668v. «A detto (13 novembre 1688) mi faccio esito di tarì decidotto pagati per adorare una cornice di San Genonimo che tiene sua illustrissima allo capizzo della sua camera; tarì 18».[]
  26. Questo argentiere, Fulco/Falco come viene indicato nei documenti, sinora è sfuggito alla storiografia contemporanea. Dal 1686 ricevette continue mansioni per conto dell’arcivescovo sia per apportare ripari e aggiunte, sia per realizzare nuovi manufatti. ASPa, fondo notarile, stanza III, notaio Pietro Nunzio Serio, vol. 3476, c. 522v. «A 23 detto (maggio 1686) mi faccio esito di tarì undeci pagati a Domenico Fulco arginteri per accomodare un candilero d’argento quale leva in cime un candelotto; tarì 11»; c. 542r. «A 8 detto (febbraio 1687) mi faccio esito di tarì 3 pagati a Domenico Fulco arginteri per haver accommodato l’anello d’amatista di sua illustrissima; tarì 3»; c. 543r. «A 2 marzo (1687) mi faccio esito di tarì 20 pagati a Domenico Fulco arginteri a complimento di tarì 24; tarì 4 per prezzo d’argento che fu di sopra nello rinaloro vecchio e tarì 24 sono per la mastria del rinaloro novo; tarì 20. A 6 detto (marzo 1687) mi faccio esito di tarì 3 pagati a Domenico Fulco arginteri per scolpire l’armi di sua illustrissima nel calamaro e rinaloro; tarì 3»; c. 587v. «A primo novembre (1687) mi faccio exito di tarì 4 pagati a Dominico Fulco arginteri per accommodare il pede del calice di sua illustrissima che venne rutto di Misilmeli; tarì 4»; c. 611r. «A detto (31 gennaio 1688) mi faccio esito di tarì 18 pagati a Domenico Fulco per prezzo e mastria delli chiova d’argento posti nel Santo Christo d’avolio; tarì 18»; c. 631r. «A 15 detto (maggio 1688) mi faccio exito di onze 97.26.3 pagati a Domenico Fulco arginteri cioè onze 89.6.3 per prezzo di libri 21.2.3/4 e menza d’argento che pesaro sei cannistri d’argento a raggione di onze 4.6 la libra e onze 8.12 per mastria di detti sei cannistri e tarì 8 per per menlaria quali cannistri si sono dati di fera a 4 advocati al procuratore et a don Andrea Vitrano medico d’ordine di sua illustrissima, apoca in notar Giuseppe Furno; onze 97.26.3»; c. 666v. «A 27 detto (ottobre 1688) mi faccio esito di onze due tarì 19.12 pagati a Domenico Fulco arginteri, cioè, onze 2.5.12 pagati per prezzo di un vaso di sacchetta per il signor arcivescovo mio signore che pesò onze 6. 1/4 a raggione di tarì 10.10 l’onza e tarì 14 per manifattura; onze 2.19.12»; c. 673r. «A 31 detto (dicembre 1688) mi faccio esito di onze 2.6 pagati a Domenico Fulco arginteri e sono per haver fatto un calice con sua patena addorate novi per servizio dell’Altarello di Baiida stante esser vechio come appare per minor nel giornale; onze 2.6»; c. 882v. «A 29 detto (novembre 1690) mi faccio esito di onze 2.5.4 pagati a Domenico Fulco argintiero cioè onze 1.23.4 prezzo di quattro brucchetti di peso onze tre ed un sidicino a raggione di tarì 10.10 l’onza, tarì 6 per mastria di detti, e tarì 6 per havere rinovato quattro cucchiani d’argento; onze 2.5.4»; c. 910v. «A 27 detto (gennaio 1691) mi faccio esito di onze 7.25.16 pagati a Domenico Fulco argintiero per haver fatto una pisside per servitio dell’oratorio di monsignor illustrissimo cioè onze 3.14.16 per prezzo d’onze undici meno un sidicino d’argento a raggione di tarì 10.10 l’onza, onze 2.21 per tre zicchino d’oro a raggione di tarì 27, onza 1.10 per mastria della detta pisside apoca in notar Giuseppe Furno; onze 7.25.16»; c. 970v. «A 28 decembre (1691) mi faccio esito di onze 29.4 pagati a Domenico Fulco argintiero sotto 26 detto sono, cioè, onze 21.9 per il prezzo d’un bacile d’argento fatto in Madrid di peso onze 55. 1/4 a raggione di tarì 11 l’onza, tarì 24 per mastria, tarì 2 per mezzania, et tarì 7.29 per prezzo d’un bucceri di peso onze 20 a raggione di tarì 10.10 l’onza e tarì 14.10 per sua mastria; onze 29.4».[]
  27. ASPa, fondo notarile, stanza III, notaio Pietro Nunzio Serio, vol. 3476, c. 802v. «A 12 febraro (1690) mi faccio esito di tarì 16 pagati per nolo e portatura d’un pappamundo terrestre venuto da Venetia a monsignore illustrissimo; tarì 6»; c. 662v. «A detto (18 settembre 1688) mi faccio esito di tarì quattro pagati al patron della Filuca per porto d’haver portato una carta stampata del globo celestre e terrestre; tarì 4»; c. 665v. «A 19 ottobre (1688) mi faccio esito di tarì quattro pagati per alcuni mappi d’eligami celesti e terrestri che si stanno inprimendo in Roma per conto della Cademia; tarì 4»; c. 1041v. «A detto (25 settembre 1692) onze 6.29 per portatura e nolo del globo celeste venuto da Roma da monsignore illustrissima, la quale somma pagata al principe Angelo Marino; onze 6.2».[]
  28. Cfr. G. Gimma, Elogj accademici…, pp. 38-39. Sull’argomento delle Accademie a Palermo si rimanda a M. Verga, Da letterato a professore della regia università. Le accademie a Palermo nel XVIII secolo, Palermo 2019.[]
  29. ASPa, fondo notarile, stanza III, notaio Pietro Nunzio Serio, vol. 3476, c. 592v. «A detto (1692) onze 11.4 pagati a Gaspare Duro argintero sono per prezzo di onze 16 d’argento a tarì 20 l’onza per fare un reliquiario di San Pietro Martire e tarì 4 di regalo; onze 11.4».[]
  30. ASPa, fondo notarile, stanza III, notaio Pietro Nunzio Serio, vol. 3476, c. 1023r. «A 16 detto (giugno 1692) tarì 16 pagate all’argentiero per havere fatto un reliquiario del sangue di San Francesco di Sales di filigrana e havercelo dorato; tarì 16».[]
  31. A. Mongitore, Dell’Istoria sagra di tutte le chiese, conventi, monasteri, spedali, et altri luoghi pii della città di Palermo. Le parrocchie, Maggione, e spedali. Opera di don Antonino Mongitore canonico della Santa Metropolitana Chiesa di Palermo, BCPa, manoscritto del XVIII secolo, Qq_E_4, f. 394.[]
  32. Cfr. Vittoria Colonna e Michelangelo, catalogo della mostra a cura di Pina Ragionieri, Firenze 2005; A. Forcellino, La pietà perduta. Storia di un capolavoro ritrovato di Michelangelo, Milano 2010; L’ultimo Michelangelo. Disegni e rime attorno alla Pietà Rondanini, catalogo della mostra a cura di Alessandro Rovetta, Cisinello Balsamo 2011.[]
  33. Cfr. M. Forcellino, Michelangelo, Vittoria Colonna e gli “spirituali”. Religiosità e vita artistica a Roma negli anni Quaranta, Roma 2009.[]
  34. A. Condivi, Vita di Michelagnolo Buonarroti, ed. a cura di Giovanni Nencioni, con saggi di Michael Hirst, Caroline Elam, Firenze 1998, p. 61.[]
  35. G. Palermo, Guida istruttiva per Palermo e suoi dintorni riprodotta su quella del cav. D. Gaspare Palermo dal beneficiale Girolamo Di MarzoFerro, Palermo 1858, p. 533, scrive: «nel maggiore dentro proporzionato cappellone è il quadro della Madonna della Pietà, pittura, che alcuni la vogliono di fra Sebastiano del Piombo primo scolare di Tiziano, altri di Michelangelo Buonaroti portata da Spagna dal fondatore Bazan, e regalato alla chiesa». []
  36. ASPa, fondo notarile, stanza III, notaio Pietro Nunzio Serio, vol. vol. 3521, c. 1317v.[]
  37. Cfr. V. Abbate, La città aperta. Pittura e società a Palermo tra Cinque e Seicento, in Porto di mare 1570-1670. Pittori e pittura a Palermo tra memoria e recupero, catalogo della mostra a cura di Vincenzo Abbate, Napoli 1999, p. 14.[]
  38. ASPa, fondo notarile, stanza III, notaio Pietro Nunzio Serio, vol. 3476, c. 524v. «A detto (19 giugno 1686) mi faccio esito di onze quattro pagati per prezzo di una cornice dorata per la Madre di Dio delli Dolori; onze 4».[]
  39. Sull’argomento si rimanda a S. Capelli, Le copie pittoriche della Pietà di Michelangelo per Vittoria Colonna: Marcello Venusti e i copisti anonimi attribuzioni e precisazioni, in «STUDI ROMANI», anno LXI, nn. 1-4 Gennaio-Dicembre 2013, pp. 123-141. L’autrice si sofferma ad analizzare attentamente la versione palermitana, in part. pp. 139-149 e relative note.[]
  40. Cfr. D. García Cueto, A. Zezza, La copia pittorica a Napoli tra ‘500 e ‘600. Produzione, collezionismo, esportazione, Roma 2018.[]
  41. F. De Hollanda, Colloqui con Michelangelo, edizione a cura di Emilio Radius, Milano 1945, p. 64.[]
  42. V. Auria, Il Gagino redivivo, ò vero notitia della vita, ed opere d’Antonio Gagino, nativo della città di Palermo, scultore famosissimo. Composta dal dottor don Vincenzo Auria palermitano. Dedicata al reverendissimo padre Francesco Girgenti, della Congregatione dell’Oratorio di S. Filippo Neri, dott. dell’una, e l’altra legge, consultore, e qualificatore della SS. Inquisitione, abbate di S. Giacomo di Calò, preposito già di detta Congregatione vicario, governatore, e visitatore degnissimo di monsignor arcivescovo di Palermo, in Palermo nella nuova stamperia di Giuseppe Gramignani, 1698, Per Vincenzo da Pavia si rimanda a Vincenzo degli Azani da Pavia e la cultura figurativa in Sicilia nell’età di Carlo V, catalogo della mostra a cura di Teresa Viscuso, Siracusa 1999.[]
  43. Cfr. A. Gallo, Sul famoso quadro di Raffaello Sanzio rappresentante lo Spasimo di M. V. innanzi a Gesù Cristo condotto al Calvario: discorso storico-critico di Agostino Gallo, s.n. dopo il 1836, p. 3, in part. n. 1: «Leggasi appresso la narrazion di questo fatto, ch’io il primo ritrassi nel 1833 da documenti inediti, dall’archivio dei PP. Benedettini bianchi di Palermo, e che è stata riferita assai alterata da gli altri scrittori, e particolarmente dal P. Galeoni».[]
  44. Per l’opera si rimanda a M.G. Paolini, Aggiunte al Grano e precisazioni sulla pittura palermitana tra Sei e Settecento, in Scritti in onore di Ottavio Morisani, Università degli Studi, Catania 1982, pp. 309-360; M.G. Paolini, in scheda n. 37, in XII Catalogo di opere d’arte restaurate (1978-1981), a cura della Soprintendenza Beni Artistici e Storici Sicilia Occidentale, Palermo 1984, pp. 182-186; V. Abbate, Resta Del Voglia e l’Oratorio palermitano, in S. Prosperi Valenti Rodinò, I disegni del Codice Resta di Palermo, Cisinello Balsamo 2007, p. 144; V. Abbate, scheda n. 20, in Serpotta e il suo tempo, a cura di V. Abbate. p. 262.[]
  45. Cfr. A. Mongitore, Memorie dei pittori, scultori, architetti, artefici in cera siciliani, ed. critica a cura di Elvira Natoli, Palermo 1977, pp. 156-157.[]
  46. ASPa, fondo notarile, stanza III, notaio Pietro Nunzio Serio, vol. 3476, c. 768r. «A detto (24 settembre 1689) mi faccio exito di onze 3.10 pagati contanti al detto Marche per pittura del Santo re don Ferdinando e per mastria del Santo Christo».[]
  47. Cfr. F. Susinno, Le vite de’ pittori messinesi, testo, introduzione e note bibliografiche a cura di Valentino Martinelli, Firenze 1960, p. 281.[]
  48. Cfr. P.Palazzotto, Palermo. Guida agli oratori. Confraternite, compagnie e congregazioni dal XVI al XIX secolo, Palermo 1999; G. Mendola, L’oratorio del Rosario in Santa Cita, in Giacomo Serpotta, L’oratorio del Rosario in Santa Cita a Palermo, Palermo 2015, pp. 25-37, note a p. 75; G. Bongiovanni – P. Palazzotto – M. Sebastianelli, Carlo Maratti. La Madonna del Rosario e Santi dell’Oratorio del SS. Rosario in Santa Cita a Palermo, Palermo 2021.[]
  49. Il disegno (penna, inchiostro nero, matita rossa e biacca, su carta colorata rosata; 205 x 172 mm) è stato identificato come opera di Giuseppe Passeri da M.G. Paolini, Aggiunte al Grano…, p. 342 e n. 84.[]
  50. Per un quadro complessivo relativo a questi arcivescovi si rimanda A. Mongitore, Istoria cronologica degli arcivescovi della Metropolitana Chiesa di Palermo…, mentre per la committenza del ciborio si rimanda a C. D’Arpa, La committenza dell’arcivescovo Martino de Leon y Cardenas per la cattedrale di Palermo (1650-1655): un intervento inedito dell’architetto Cosimo Fanzago, in «Palladio», n. 21, 1998, pp. 35-46, che su base documentaria ha contribuito a chiarirne le varie fasi di intervento. Inoltre, cfr. G. Guadagna, “Reca stupore al tempo” – Riflessioni sui tabernacoli in lapislazzuli a Palermo tra tarda maniera e neoclassicismo (DOI: 10.7431/RIV14042016) in OADI, Rivista dell’Osservatorio per le Arti Decorative in Italia, n. 14, anno 2016.[]
  51. Cfr. M.C. Di Natale, Ori e argenti del tesoro della Cattedrale di Palermo, in M.C. Di Natale, M. Vitella, Il tesoro della cattedrale di Palermo, Palermo 2010, p. 82; R.F. Margiotta, Beni mobili. Patrimonio artistico e committenti in Sicilia dalle fonti d’archivio tra XVI e XIX secolo, Palermo 2020, p. 63. Inoltre, si rimanda alla breve scheda biografica relativa a Ferdinando Bazán scritta dall’autrice, pp. 112-113.[]
  52. ASPa, fondo notarile, stanza III, notaio Pietro Nunzio Serio, vol. 3476, cc. 1147v-1148r. «A 31 decembre e fu a 24 decembre 1692, onze 168 per tanti datoli contanti a don Francesco Perez de Valenzola cavallarizzo in diverse volte a partire per tanti spesi e mastrie da detto pagati per havere fatto una seggia per servitio del Santissimo Sacramento della Maggiore chiesa d’ordine di monsignor illustrissimo; onze 168.5. A detto e fu a 7 novembre 1692, onze 26 pagati a Giovan Battista Magnasco mercante di seta per il prezzo di canni otto et un palmo di tercio pelo carmesino raggionato a tarì 96 la canna apoca in notar Giuseppe Furno per servitio della sopradetta sedia; onze 26.1. A 31 decembre e fu a 29 decembre 1692 onze 5.24 pagati a don Eugenio Roano prezzo di palmi trentadue di incerato di Bologna per servitio della detta sedia; onze 5.24».[]
  53. Cfr. A. Mongitore, Storia sacra di tutte le chiese, conventi, monasteri, spedali et altri luoghi pii della città di Palermo. Le chiese e case dei Regolari, edizione critica a cura di F. Lo Piccolo, 2 voll., Palermo 2009, p. 413.[]
  54. ASPa, fondo notarile, stanza III, notaio Pietro Nunzio Serio, vol. 3476, c. 1023r. «A 23 detto (giugno 1692) tarì 3 pagati per lohero d’un cavallo per servitio di un pittore che andò a Bayda per copiare il boschetto delle montagne; tarì 3».[]
  55. ASPa, fondo notarile, Giuseppe Furno, stanza III, vol. 3249, cc. 25r-28r.[]
  56. Ibidem.[]
  57. Ibidem.[]
  58. ASPa, fondo notarile, notaio Pietro Nunzio Serio, stanza III, vol. 3470, cc. 1203r-1204r.[]
  59. ASPa, fondo notarile, stanza III, notaio Pietro Nunzio Serio, vol. 3476, c. 1046v. «A 23 decembre (1692) onze 981.6.3 spesi in haver fatto due giardini et un gabinetto e per havere fatto alcune pitture, seggi, buffetti, fiori, fontani e per haverci travagliato mastro muratore e mastro d’ascia come appare nel libro mastro numero 4 e d’un lista data che vista da monsignore illustrissimo; onze 981.6.3».[]
  60. ASPa, fondo notarile, Giuseppe Furno, stanza III, vol. 3304, cc. 275v-277v.[]
  61. ASPa, fondo notarile, Giuseppe Furno, stanza III, vol. 3304, cc. 277v-278r.[]
  62. Cfr. C. D’arpa, C. Lomonaco, Il ninfeo, in Museo Diocesano di Palermo. Ambienti e mostre a cantiere aperto, Palermo 2011, pp. 45-47.[]
  63. Cfr. V. Mauro (a cura di), Estetica e retorica del Barocco in Sicilia; Paolo Amato il genio di Ciminna nella felicissima Panormus, voll. I-II, Ciminna 2017.[]
  64. ASPa, fondo notarile, Giuseppe Furno, stanza III, vol. 3304, cc. 725v-726r.[]
  65. ASPa, fondo notarile, stanza III, notaio Pietro Nunzio Serio, vol. 3476, c. 1183r. «A detto (31 maggio 1695) onze 6.23 pagati a Filippo Tranchedi e Domenico di Messina pittori per attratto e magisterio d’havere pinto un ritratto di monsignore illustrissimo sopra balata di Genova nella camera delli 4 venti e per havere conciato diverse pitture in detta camera; onze 6.23».[]
  66. ASPa, fondo notarile, stanza III, notaio Pietro Nunzio Serio, vol. 3522, c. 859r.[]
  67. ASPa, fondo notarile, stanza III, notaio Pietro Nunzio Serio, vol. 3476, c. 1068v. «A 30 detto (aprile 1693) onze 53.22 spesi per il reliquiario di Santa Rosalia, e sono cioè onze 34.3.15 pagati a Domenico Falco argintero per il prezzo di onze novantasei e menza d’argento a raggione di tarì 10.10 l’onza, onze 18 per mastria del reliquiario, tarì 13 per oro per dorare vicino il loco dove sta la reliquia, tarì 26.5 prezzo d’una cassa per metterci lo detto reliquiario e tarì 9 per altra contro cassa dati per apoca in notar Giuseppe Furno sotto 8 giugno 1692; onze 53.22».[]
  68. ASPa, fondo notarile, stanza III, notaio Pietro Nunzio Serio, vol. 3476, c. 1222v. «A primo decembre (1695) onze 3.20.5 pagati ad Andrea Mimingari argintero a complimento di onze 19.14.5 comprese onze 15.24 pagatoli il canonico don Francesco Marchese sotto 12 gennaro 1695 prossimo passato sono per il prezzo di un calice regalato da monsignor arcivescovo a monsignor vescovo di Siragusa come per apoca in notar Petro Nuntio Serio; onze 3.20.5».[]
  69. A. Mongitore, Diari…, ff. 147-148.[]
  70. A. Mongitore, Diari…, f. 148.[]
  71. ASPa, fondo notarile, stanza III, notaio Pietro Nunzio Serio, vol. 3517, cc. 1909r-1910v.[]
  72. A. Mongitore, Dell’Istoria sagra di tutte le chiese, conventi, monasteri, spedali, et altri luoghi pii della città di Palermo. Le parrocchie, Maggione, e spedali. Opera di don Antonino Mongitore canonico della Santa Metropolitana Chiesa di Palermo (BCPa, manoscritto del XVIII secolo, Qq_E_4), f. 387.[]
  73. V. Auria, Historia cronologica delli signori vicere di Sicilia, dal tempo che mancò la personale assistenza de’ serenissimi rè di quella. Cioè dall’anno 1409. sino al 1697. presente. Composta dal dottor don Vincenzo Auria palermitano, in Palermo per Pietro Coppola, 1697, pp. 217-218.[]
  74. A. Mongitore, Dell’istoria sagra…, ff. 387-395.[]
  75. ASPa, fondo notarile, stanza III, notaio Pietro Nunzio Serio, vol. 3474, cc. 284r-295r.[]
  76. A. Mongitore, Dell’istoria sagra…, ff. 391-392.[]
  77. Cfr. F. Meli, La vita e le opere, Palermo 1934, pp. 158-160.[]
  78. ASPa, fondo notarile, stanza III, notaio Pietro Nunzio Serio, vol. 3477, cc. 1541r-1542r. Una trascrizione parziale del documento è data da F. Meli, La vita…, p. 258.[]
  79. Ibidem.[]
  80. Cfr. F. Meli, La vita…, pp. 158-160.[]
  81. Cfr. E. Panofsky, Studi di iconologia, Torino 1975, p. 22.[]
  82. Cfr. C. Siracusano, La pittura del Settecento in Sicilia, Roma 1986, pp. 170-179.[]
  83. ASPa, fondo notarile, stanza III, notaio Pietro Nunzio Serio, vol. 3477, cc. 1693r-v.[]
  84. Cfr. C. Siracusano, La pittura del Settecento…, p. 170, n. 18 p. 172.[]
  85. ASPa, fondo notarile, stanza III, notaio Pietro Nunzio Serio, vol. 3521, c. 1032v.[]
  86. Per l’opera si rimanda a L. Mansueto, in Rosalia eris in peste patrona, catalogo della mostra a cura di V. Abbate, V. Bongiovanni, M. De Luca, Palermo, Palazzo Reale, 3 settembre 2018 – 5 maggio 2018, Palermo 2018, p. 147 e relativa bibliografia; si veda anche M.C. Di Natale, S. Rosalia virgo solitaria, in Le estasi di santa Rosalia. Antoon van Dyck,Pietro Novelli, Mattia Preti, Luca Giordano, catalogo della mostra a cura di M.C. Di Natale, Cinisello Balsamo 2024, pp. 21-23.[]
  87. ASPa, fondo notarile, stanza III, notaio Pietro Nunzio Serio, vol. 3522, cc. 313r-v.[]
  88. ASPa, fondo notarile, stanza III, notaio Pietro Nunzio Serio, vol. 3522, cc. 1401r-1402r.[]
  89. ASPa, fondo notarile, stanza III, notaio Pietro Nunzio Serio, vol. 3522, cc. 1507v-1508r.[]
  90. ASPa, fondo notarile, stanza III, notaio Pietro Nunzio Serio, vol. 3522, cc. 1508r-v.[]
  91. ASPa, fondo notarile, stanza III, notaio Pietro Nunzio Serio, vol. 3522, cc. 1508v-1509r.[]
  92. ASPa, fondo notarile, stanza III, notaio Pietro Nunzio Serio, vol. 3522, cc. 1509v-1510r.[]
  93. ASPa, fondo notarile, stanza III, notaio Pietro Nunzio Serio, vol. 3478, cc. 479r-v.[]
  94. ASPa, fondo notarile, stanza III, notaio Pietro Nunzio Serio, vol. 3523, cc. 136r-v.[]
  95. ASPa, fondo notarile, stanza III, notaio Pietro Nunzio Serio, vol. 3522, cc. 1525r-v.[]
  96. ASPa, fondo notarile, stanza III, notaio Pietro Nunzio Serio, vol. 3522, cc. 1529v-1531v.[]
  97. A. Mongitore, Dell’Istoria sagra di tutte le chiese…, ff. 392-393.[]
  98. A. Mongitore, Vita di monsignor fr. d. Giuseppe Gasch dell’Ordine de’ Minimi di S. Francesco di Paola, arcivescovo della metropolitana chiesa di Palermo. Scritta da d. Antonino Mongitore palermitano, canonico della stessa metropolitana chiesa, in Palermo nella stamp. di Agostino Epiro, 1729, p. 18.[]
  99. Ivi, pp. 24-25.[]