Angelo Antonio Faraci

Ignazio Marabitti: il bozzetto della Gloria di San Luigi Gonzaga

angelofaraci20@gmail.com
DOI: 10.7431/RIV29082024

Nel marzo del 2024 è apparso sul mercato antiquario un interessante bozzetto – 60 x 31 cm – proveniente da una collezione privata di Palermo1 (Fig. 1). Il piccolo modello in gesso dorato riproduce fedelmente una delle più celebri composizioni dello scultore Ignazio Marabitti (1719 – 1797) artista di punta nel panorama siciliano e indubbio capostipite della scuola palermitana della seconda metà del XVIII secolo2. Ci riferiamo alla Gloria di San Luigi Gonzaga, oggi nella seconda cappella destra accessibile dal transetto della chiesa del Gesù di Palermo3 (Fig. 2). Tuttavia, in origine, il monumentale altorilievo fu ideato per la chiesa gesuitica di Santa Maria della Grotta del Collegio Massimo sul Cassaro, oggi sede della Biblioteca Centrale della Regione Siciliana4. Il pannello marmoreo, nel corso del tempo, ha subito numerose traversie prima di giungere alla collocazione attuale.

L’altorilievo raffigura il Santo in gloria in adorazione del mistero della Trinità rappresentata sotto forma di un triangolo da cui si propagano dei raggi. Il giovane Gonzaga è ritratto con le braccia aperte, veste l’abito della Compagnia del Gesù e una cotta orlata da un minuzioso lavoro a trapano (Fig. 3). Luigi è avvolto in un turbinio ascensionale che increspa e dispiana i morbidi panni in un raffinato gioco di sinuose linee che si estendono nei dinamici angeli ai suoi fianchi. Fanno da corona una moltitudine di nubi e di putti mentre, in alto, un angelo è pronto a cingere il capo del giovane Santo con un serto floreale, simbolo di vittoria.

L’inedito bozzetto passato all’asta è da attribuire alla ristretta bottega dell’artista palermitano, se non alla sua stessa mano. Il ruolo di questi modelli plastici nelle creazioni del Marabitti è per nulla marginale, benché siano pochi gli studi organici a riguardo5. Il processo creativo adoperato dal maestro seguiva una prassi consolidata nel campo artistico del suo tempo. Da una prima progettazione grafica, probabilmente su carta, si passava a plasmare il modellino che poteva essere in terracotta, in cera o in stucco. Tali materiali permettevano all’artista di portare a compimento l’idea sviluppata mentre la loro facile modellazione consentiva una lavorazione rapida e allo stesso tempo di apportare le modifiche necessarie in corso d’opera. In una fase successiva veniva applicata la doratura – in taluni casi la policromia – per dare maggiore risalto alla composizione e renderla visivamente accattivante agli occhi dei committenti. Oltre a fungere da opere di presentazione, il maestro, così facendo, aveva ben in mente le proporzioni da esportare in scala, indispensabili in special modo nel caso di imponenti opere marmoree in cui, ogni errore di varia natura, poteva compromettere la buona riuscita.

Il primo biografo dell’artista, Giuseppe Bozzo, nel suo scritto Le lodi dei più illustri Siciliani (…) afferma che, dopo la morte di Ignazio Marabitti, gli eredi poco interessati a mantenere viva la memoria del loro avo dispersero il suo patrimonio: «Dove che, sono già quindici anni trascorsi, la casa dell’ultimo di loro sofferse grande penuria, onde gli abozzi e le memorie e gli obietti d’arte, dopo il valent’uomo rimasti, ne andarono sciupati e ciecamente dispersi»6. In una prima fase anche la critica locale ha confermato le parole del biografo7, in realtà, nel tempo, alcuni modelli preparatori realizzati dall’artista sono stati individuati. Ricordiamo le piccole opere conservate alla Galleria Regionale di Palermo, provenienti dalla collezione di San Martino delle Scale e riproducenti il progetto per le tombe della famiglia di Blasi e la fontana dell’Oreto8. Sempre a Palazzo Abatellis è custodito il bozzetto dell’altare di Sant’Ignazio di Siracusa, che giunge dalle raccolte di Casa Professa di Palermo9; inoltre, all’Accademia Carrara di Bergamo, un altro modello plastico, probabilmente il San Paolo della facciata del Duomo di Siracusa, è stato attribuito al Marabitti10. Sul mercato antiquario nel 2019, infine, è apparsa la splendida terracotta dorata di Santa Rosalia, modello preparatorio per l’altare maggiore nella chiesa dedicata alla Vergine eremita a Monreale11.

Il bozzetto oggetto di questo studio, condivide con le opere sopra elencate la tecnica, sebbene le informazioni della scheda fornita dalla casa d’aste riportino come materiale usato il gesso, più plausibilmente lo stucco. Delimitato da una cornice in legno ebanizzato, il modello mostra a chiusura, sul verso, una piccola lastra di ardesia, materiale usato nel campo artistico per le proprie capacità di suddividersi in sottili lastre compatte e leggere12 (Fig. 4).

Il modello, oltre a configurarsi come preziosa testimonianza della fase ideativa dell’artista, ci permette di leggere l’opera concepita da Marabitti senza le molteplici mutazioni morfologiche avvenute nel corso del tempo e di cui si dirà in seguito.

L’artista palermitano formulò una composizione spiccatamente tardobarocca secondo i modelli più aggiornati della Roma papale del Settecento. La formazione del giovane artista è avvenuta, secondo lo storico Gaspare Palermo, proprio nella capitale dove perfezionò la sua arte sotto la direzione del fiorentino Filippo della Valle (1698 – 1769)13. Marabitti introdusse in Sicilia l’idea della macchina d’altare marmorea di derivazione romana, importando composizioni formali già introdotte nelle maggiori chiese delle case generalizie degli ordini religiosi14. Il maestro adoperò espedienti attinti a piene mani dalle opere del Della Valle e dagli artisti francesi attivi sul territorio pontificio. Tra questi: L’Apoteosi di Sant’Ignazio della chiesa dei Gesuiti di Catania, l’Immacolata Concezione della chiesa del collegio di Trapani e l’Apoteosi di San Benedetto nel Duomo di Monreale15, condividono l’ideazione della cornice mistilinea che cerca di contenere una porzione di cielo barocco ridondante di nuvole e di angeli.

Anche l’icona marmorea della chiesa del Gesù di Palermo seguiva questa ideazione, sebbene oggi si presenti mutila in più parti. Per comprendere lo status attuale del manufatto occorre ripercorrere alcune tappe fondamentali.

La chiesa di Santa Maria della Grotta possedeva otto cappelle e Mongitore ci ricorda «la prima del fianco sinistro è dedicata a san Luigi Gonzaga tutta ornata di marmi mischi, coll’altare freggiato di 6 colonne fu abbelita nel 1682»16. Meno di un secolo dopo, nel 1762, fu commissionata a Ignazio Marabitti la nuova immagine del Santo, ultimata nel 1763 come riporta la firma e la data apposta al centro in basso (Fig. 5).

La nuova scultura andò a sostituire una probabile tela collocata al centro del barocco altare descritto da Mongitore. Quest’ultimo assetto non ebbe lunga durata, infatti appena venti anni dopo, la strada dello scultore del Settecento si intrecciò con quella di un altro grande maestro del passato: Antonello Gagini.

Con l’espulsione dei gesuiti dal Regno, con l’editto del 3 novembre 1767 voluto da Carlo III di Borbone, l’imponente complesso del Collegio Massimo iniziò a mutare destinazione d’uso17. La chiesa di Santa Maria della Grotta passò sotto la cura del Prefetto del Baglio, mentre il culto divino nel febbraio del 1768 fu affidato ai sacerdoti secolari18. Tralasciando le complesse vicende che portarono l’edificio gesuitico alla trasformazione in Reggia Biblioteca – affidata all’ingegnere camerale Venanzio Marvuglia – ricordiamo soltanto la cerimonia di inaugurazione del 5 novembre del 1782, alla presenza del Viceré Caracciolo19. In questo periodo di rinnovamenti, per l’attigua chiesa fu acquistato un prezioso altare dismesso, opera di Antonello Gagini (1516), ideato in origine per contenere la celebre tavola di Raffaello comunemente conosciuta come Lo Spasimo di Sicilia. L’opera gaginiana, dopo diversi spostamenti20, fu sistemata nella cappella di San Luigi in Santa Maria della Grotta e andò a incorniciare il rilievo di Marabitti. Fu incaricato lo scultore Giosuè Durante, al quale toccò l’importante operazione di rimontaggio dell’altare rinascimentale. Tuttavia, vi era un ulteriore difficoltà da superare, rappresentata dalla cornice mistilinea della composizione del Marabitti che doveva, in qualche modo, adattarsi alla quadrangolare cornice scolpita dal Gagini. Tale operazione obbligò il Durante a rimuovere la profilatura tardobarocca progettata dal maestro. Il complesso lavoro, in prima istanza volto alla conservazione dell’opera rinascimentale, si configura paradossalmente come un omaggio al Marabitti che nel 1782 era ancora in vita. Difatti le parole di profondo elogio del Marchese di Villabianca ci restituiscono in qualche misura la verità sulla scelta di congiungere le opere di due artisti che parrebbe per nulla casuale: «Le sue eccelse opere rilasciate in Marmi siccome lo riempiono di gloria nell’età nostra, così immortale lo rendono nella stagione ventura. Ci fé egli con la sua virtú rinnovare i tempi del famoso scultore palermitano Antonio Gagini ed infatti era comunemente appellato il Gagini novello di Palermo»21. Dunque, i contemporanei del Marabitti lo paragonavano al più grande artista del rinascimento siciliano, esaltato per le innegabili qualità estetiche e per la prolifica azione artistica che investiva non solo la città di Palermo ma si estendeva per tutto il territorio isolano. In questa laica glorificazione dell’ultimo capostipite della scultura siciliana del Settecento, possiamo ritrovare i riflessi dei caratteri della stagione dei Lumi, quando le opere di artisti che avevano reso lustro alla patria venivano esaltate e celebrate dagli storici. Inoltre, va evidenziato, un ulteriore punto di tangenza tra Gagini e Marabitti, in quanto entrambi furono grandemente richiesti dalla committenza aristocratica per le tombe gentilizie.

Tornando alla cappella di San Luigi e alla chiesa di Santa Maria della Grotta, quest’ultima alla fine dell’Ottocento venne chiusa al culto. Gli altari e gli altri manufatti d’arte furono dislocati in varie chiese o custoditi presso enti museali. Una preziosa testimonianza fotografica scattata nella cappella ci restituisce l’operazione condotta dallo scultore Giosuè Durante (Fig. 6) prima che questa entrasse a far parte delle collezioni del Museo Nazionale ubicato nel collegio dei padri Filippini all’Olivella e qui rimase fino agli anni ‘50 del Novecento22. Proprio in quegli anni, il Museo veniva separato in due sezioni: quella archeologica rimase in loco, mentre le testimonianze medievali e moderne furono esposte a Palazzo Abatellis. Tuttavia, in questa occasione, il pannello marmoreo del Marabitti e l’altare di Gagini furono riconsegnati ai Gesuiti, i quali decisero di collocare San Luigi nella cappella della chiesa del Gesù, luogo dove ancora oggi possiamo ammirarlo23.

Nella sua collocazione attuale emergono ad uno sguardo attento le tracce della profilatura mistilinea dell’altorilievo del tutto conforme al bozzetto ritrovato.  In particolare, nell’angolo in basso a sinistra, è ben visibile il segno del taglio convesso della superfice di marmo, integrato con un’altra porzione in modo da rendere regolare il pannello (Fig. 7). Proseguendo sul margine inferiore possiamo notare il piede del grande angelo, oggi sospeso, ma che nell’ideazione dell’artista sfiorava la cornice, quasi a spingersi con le punte delle dita verso l’alto. Il corpo nuvoloso con le due testine alate, in origine così come nell’adattamento di Durante, era parecchio aggettante, mentre oggi appare ancorato alla superfice tramite della malta. Le trasformazioni maggiori si registrano nell’angolo destro (Fig. 8), dove le parti mancanti sono state integrate con della semplice malta e, inoltre, osservando il bozzetto possiamo scorgere in quel punto la corona rovesciata e lo scettro, attributi iconografici cari a San Luigi, il quale in giovanissima età rifiutò gli agi dei Gonzaga per entrar a far parte dell’ordine gesuitico. Osservando l’antica testimonianza fotografica possiamo notare la presenza di questi oggetti sotto il piede dell’angelo, come se egli volesse calpestarli in segno di disprezzo della mondanità terrena24. Tuttavia, gli attributi iconografici non sono più presenti sull’altorilievo marmoreo sebbene rimangano visibili delle tracce, in particolare si veda il panneggio dell’angelo spezzato che in origine ricadeva sulla nuvola sottostante. Lungo il lato destro sono distinguibili i solchi di ancoraggio della cornice (Fig. 9), in modo più accentuato sotto l’ala e nella capigliatura del putto sull’estremo margine, quest’ultimo concepito con un lieve aggetto rispetto al profilo del telaio. In alto a destra furono integrate dal Durante due nubi con lo scopo di colmare la parte vuota originata dalla profilatura mistilinea. I corpi nuvolosi, inframezzati da raggi, donano la regolarità quadrangolare al margine, benché appaiano chiaramente distinguibili dalla compagine scolpita da Marabitti. La superfice parzialmente coperta dall’angelo che discende dal cielo per coronare di fiori il santo mostra esplicitamente il segno della parte centinata superiore che sull’angolo sinistro è stata prolungata con una nuvola posticcia (Fig. 10). Lo stacco tra la composizione di Marabitti e l’integrazione postuma è resa evidente dall’uso della malta che fa spiccare il candore del marmo bianco usato dall’artista. Possiamo solo immaginare il gioco di contrasti creato tra la superfice eburnea del rilievo e il marmo probabilmente di colore scuro che la incorniciava (Fig. 11), espediente questo usato negli stessi anni per l’Apoteosi di San Benedetto a Monreale.

Per dare maggiore fastosità alla composizione il Marabitti inserì alcuni ornamenti in rame dorato al fine di creare ulteriori giochi di luce. Questi, non più presenti, vengono testimoniati dal biografo Giuseppe Bozzo «Dove per mezzo al tritume delle pieghe, segnatamente della cotta, e a’ pesanti ornati, ancora in rame, secondo allora volevansi, mirabile è l’espessione del volto del Gonzaga»25. Sono chiaramente distinguibili nell’antica fotografia il triangolo trinitario, di cui oggi ci rimane solo la lieve traccia sulla superfice, e il giglio un tempo retto dall’angelo sulla destra (Fig. 12). Da un’altra antica foto dell’altare esposto al Museo Nazionale, invece, emerge che anche il serto floreale fosse in materiale metallico (Fig. 13), così come probabilmente la corona in basso a destra.

In conclusione, possiamo affermare come l’individuazione di un bozzetto e la sua attribuzione al Maestro, incrociato con una osservazione attenta dell’altorilievo realizzato, permetta di operare delle valutazioni critiche non solo sul processo ideativo ed il linguaggio dell’artista, ma anche sulle successive trasformazioni che hanno interessato l’opera nel tempo. Queste, come dimostrato, vanno, al pari di altri aspetti, coerentemente documentate ed interpretate per evitare fraintendimenti nella lettura dell’opera singola e, più in generale, del modus operandi dell’artista.

  1. Casa d’Aste Sarno, Palermo, asta marzo 2024, prima tornata, lotto 95, Figura di Santo con cherubini, bassorilievo in gesso dorato in cornice in legno ebanizzato, Sicilia, fine XVIII secolo. Ringrazio Emanuele Venezia per la gentile concessione fotografica.[]
  2. Su Ignazio Marabitti: R. Giudice, Francesco Ignazio Marabitti, scultore siciliano del XVIII secolo, Palermo 1937; D. Malignaggi, Ignazio Marabitti, in “Storia dell’Arte”, 19 (1973), pp. 5-61; F. Fittipaldi, Sculture inedite di Ignazio Marabitti, in “Napoli Nobilissima”, 15 (1976), pp. 65-105; L. Sarullo, Dizionario degli artisti siciliani, vol. III, Scultura, a cura di B. Patera, Palermo 1994, scheda di F. Pipitone, pp. 205-208; D. Garstang, Ignazio Marabitti and Patrician Tombs in Eighteenth-Century Palermo, in “Antologia di Belle Arti”, 63-66 (2003), pp. 7-30; P. Russo, Marabitti, Francesco Ignazio, in Dizionario biografico degli italiani, vol.69, Roma 2007; N. Finocchio, Palermo. I monumenti funebri del viceré Eustachio Viefuille di Ignazio Marabitti, in “Annali della Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon”, 12 (2012), pp. 331-347.[]
  3. Per una trattazione generale si veda: Costruire Gerusalemme: il complesso gesuitico della Casa Professa di Palermo dalla storia al museo, a cura di M.C. Ruggieri Tricoli, Milano 2001.[]
  4. Sulle vicende del complesso gesuitico vi veda: G. Scuderi, Dalla Domus studiorum alla Biblioteca centrale della Regione siciliana: il Collegio Massimo della Compagnia di Gesù a Palermo, Palermo 2012.[]
  5. F. Fittipaldi, Sculture inedite…, 1976, pp. 76-77.[]
  6. G. Bozzo, Le lodi dei più illustri siciliani trapassati ne’ primi 45 anni del secolo XIX, Vol. I, Palermo 1851, p. 7.[]
  7. D. Malignaggi, Ignazio Marabitti…, 1973, p. 12.[]
  8. Per le tombe si veda G. De Blasi, Il sepolcro di Gabriele Maria di Blasi di Ignazio Marabitti. Con una nota sui perduti monumenti degli Arcivescovi nel Duomo di Messina, in “Archivio Storico Messinese”, 98 (2017), pp .141-153. Per la fontana dell’Oreto di San Martino delle Scale si veda il Bozzetto di Divinità fluviale (inv. 4906, https://catalogo.beniculturali.it/detail/HistoricOrArtisticProperty/1900267672) ultima consultazione 15 aprile 2024.[]
  9. Si veda: https://catalogo.beniculturali.it/detail/HistoricOrArtisticProperty/1900267669, ultima consultazione 15 aprile 2024.[]
  10. Il museo in dono. 10 anni di doni, legati, depositi alla Accademia Carrara di Bergamo, catalogo della mostra a cura di F. Rossi, Bergamo 2004, p. 33.[]
  11. M. Clemente, Francesco Ignazio Marabitti (Palermo 1719 – 1797), Saint Rosalie, 1758, Milano 2019.[]
  12. L’ardesia fu adoperata dal Marabitti come supporto anche per le opere di Palazzo Abatellis, come il Bozzetto del monumento per gli arcivescovi Vidal, Moncada e di Blasi del 1767-1770 (inv. 4908, https://catalogo.beniculturali.it/detail/HistoricOrArtisticProperty/1900267670, ultima consultazione 15 aprile 2024), e il Bozzetto del monumento funebre di Gabriele Maria di Blasi del 1767-1772 (inv. 4915, https://catalogo.beniculturali.it/detail/HistoricOrArtisticProperty/1900267671, ultima consultazione 15 aprile 2024).[]
  13. G. Palermo, Guida istruttiva per Palermo e i suoi dintorni, Palermo 1858, pp. 111-112, nota 2. Per la formazione del giovane Marabitti si veda anche: D. Malignaggi, Ignazio Marabitti…, 1973, pp. 7-10.[]
  14. D. Malignaggi, Ignazio Marabitti…, 1973, pp.16 – 17.[]
  15. Per le opere citate si veda: D. Malignaggi, Ignazio Marabitti…, 1973, pp. 30, 35-37.[]
  16. A. Mongitore, Storia delle chiese di Palermo: i conventi, a cura di F. Lo Piccolo, vol. II, Palermo 2009, p. 155.[]
  17. G. Scuderi, Dalla Domus…, 2012, pp. 43-45.[]
  18. G. Scuderi, Dalla Domus…, 2012, p. 45.[]
  19. G. Scuderi, Dalla Domus…, 2012, p. 47.[]
  20. Le due opere rimasero in tale sito fino al 1573, quando i monaci benedettini Olivetani si trasferirono nella chiesa di Santo Spirito ubicata fuori le mura della città. Nel 1661 la tavola fu donata al re Filippo V di Spagna, oggi al Prado di Madrid, e al suo posto fu collocata una copia. A metà del Settecento gli Olivetani si trasferirono nella chiesa di San Giorgio in Kemonia lasciando l’antico altare a Santo Spirito, dove rimase fino al 1782. Cfr. G. Scuderi, Dalla Domus…, 2012, p. 121; M. A. Spadaro, Il ritorno del Gagini allo Spasimo, in “Per: periodico della Fondazione Salvare Palermo”, 50 (2019), pp. 17-19.[]
  21. Si veda quanto scritto dal marchese di Villabianca nel suo Diario (1797), pubblicato in D. Malignaggi, Ignazio Marabitti…, 1973, p. 5.[]
  22. M.A. Spadaro, Il ritorno…, 2019, p. 19.[]
  23. L’altare del Gagini, forse per mancanza di spazio, fu invece depositato nella villa di San Cataldo a Bagheria.[]
  24. Dalla foto emerge una variazione compositiva rispetto al bozzetto, in quanto la corona parrebbe tridimensionale e non in altorilievo.[]
  25. G. Bozzo, Le lodi dei più…, 1851, p. 9.[]