Mauro Bassi

Tra Milano e Roma: una proposta per l’architettura e alcune novità su Palazzo Zurla De Poli a Crema

mauro.bassi98@gmail.com
DOI: 10.7431/RIV27022023

 

Il presente articolo* si propone di analizzare la tipologia architettonica di Palazzo Zurla De Poli a Crema (1516-1520) che, come è stato rilevato in passato, impropriamente è considerato un palazzo 1, essendo piuttosto da inserirsi nel novero delle rare testimonianze di villa suburbana in Lombardia. L’analisi vuole avvalersi del confronto con altre ville del territorio lombardo e cremasco, per dimostrare la peculiarità di questo monumento rispetto a esempi coevi. Tale eccezionalità trova una spiegazione considerando la storia particolare del monumento e della nobile famiglia Zurla, originariamente proprietaria dell’edificio.

La principale difficoltà nel trattare il fenomeno della villa protorinascimentale in Lombardia e, più specificatamente, della particolare tipologia della villa suburbana è data dall’assenza di modelli predefiniti e costanti. Come è stato dimostrato dagli storici dell’architettura nel secolo scorso, la tipologia architettonica della villa italiana è, tra Quattro e Cinquecento, un campo di sperimentazione per architetti e committenti.

Ciò risulta ancora maggiormente trattando della villa quattro-cinquecentesca in Lombardia, dove essa non assurse alla dignità di fenomeno artistico se non molto in ritardo rispetto ad altre zone d’Italia 2 e dove l’evoluzione di questa tipologia edilizia presenta tratti di originalità ma anche di arretratezza: la sovrapposizione tra le tipologie abitative della villa, del castello e del palazzo urbano ha dato origine a esemplari di ville di difficile trattazione 3. Sebbene i primordi della villa suburbana possano farsi risalire alla seconda metà del Quattrocento, l’usanza da parte dei ceti abbienti di risiedere in antichi castelli persiste ancora a lungo. D’altra parte, gli stessi governanti del Ducato milanese, dai Visconti fino a Ludovico il Moro, per tutto il secolo fanno costruire, rimaneggiare o ampliare castelli (Pavia, Vigevano) che svolgono una duplice funzione, in una situazione di guerra semi-permanente, di difesa e presidio del territorio e di luogo di diporto.

Alcune delle più antiche ville che sono state studiate possiedono caratteri mutuati dall’edilizia rurale e sono volute dai ceti emergenti per assolvere a funzioni residenziali, ma soprattutto di affermazione di prestigio sociale e economico, essendo sempre fulcro della gestione di vaste proprietà fondiarie 4. Casi emblematici in questo senso sono Villanova 5 (cascina fondata da Galeazzo Maria Sforza in forme che replicano l’architettura castellana), il palazzo-castello di Branduzzo 6 e il complesso di Belvedere presso Pavia. In quest’ultimo, l’abitazione padronale risulta costituita da due antichi corpi di fabbrica disposti a L e prospicienti un’ampia corte aperta su un lato 7. Tutti e tre mostrano una tipologia edilizia residenziale in cui prevale la funzione produttiva e dove la dimora padronale non si distingue visibilmente dai locali di servizio se non per una maggiore estensione, comfort e ricerca stilistica nei partiti decorativi.

Pur constatando la quasi totale scomparsa di esempi di ville suburbane protorinascimentali prendendo in esame i censimenti delle ville nelle provincie di Cremona, Mantova 8, Como, Sondrio e Varese 9, è possibile rintracciare alcune ville decisamente meno connotate da una funzione economico-produttiva e più vicine alla nascente tipologia della villa suburbana a Milano e a Bergamo. A Milano già negli anni della signoria di Ludovico il Moro doveva esistere una pluralità di residenze suburbane che cingevano a “corona” la città, soprattutto in direzione nord, e molte delle quali sono oggi irrimediabilmente scomparse o di difficile lettura 10. Sul finire del Quattrocento si può menzionare l’esistenza delle cascine Besozzi (oggi scomparsa) e Pozzobonelli 11, nonché delle più note Bicocca degli Arcimboldi, villa Mirabello e la “Gualtiera”, la residenza di Gualtero Bascapè, annoverato tra i favoriti del Moro. Tutte si trovano a poche miglia dal centro urbano ma comunque fuori dalle antiche mura cittadine. L’impianto attuale della Bicocca, benché assai rimaneggiato nel secolo scorso, dovrebbe risalire a una ristrutturazione generale promossa dai fratelli Giovanni o Guido Antonio Arcimboldi di un primo nucleo di edificio, di dimensioni minori, avvenuta tra gli anni Sessanta e prima del 1488 12: a questa fase, pienamente rinascimentale, appartengono la caratteristica loggia sottotetto delimitata inferiormente da un cornicione di terracotta che corre lungo tutte le fronti e l’avancorpo meridionale contenente la scala che immette ai piani superiori 13. Villa Mirabello appartiene ai Portinari, procuratori del Banco Mediceo a Milano, dal 1455 14 e viene da loro edificata entro il 1472. Essa è ancora in parte legata all’assetto produttivo poiché alla casa padronale, definita dalle fonti «casa bella», risultavano contigui un giardino, ovvero un orto-frutteto, e diversi appezzamenti di terreno 15. Dal punto di vista icnografico, entrambe le ville si presentano come semplici e compatti corpi a parallelepipedo, talvolta abbinati a un secondo corpo di fabbrica che conferisce all’insieme una conformazione a L 16. Il loro caso mostra come il portico, in Lombardia, non sia, almeno in origine, elemento centrale e caratterizzante questa particolare tipologia edilizia, poiché in molti casi risulta del tutto assente. Sotto il profilo stilistico entrambe presentano nella decorazione elementi tardogotici e le loro planimetrie non obbediscono a alcuno schema predefinito 17.

La Gualtera, documentata dal 1499, assolveva alla sola esigenza di villeggiatura del proprietario, che vi risiedeva anche per periodi continuativi; era annessa una piccola azienda agricola, allivellata a diversi conduttori, ma comunque poco redditizia 18. Architettonicamente si presentava come un compatto parallelepipedo con asse longitudinale est-ovest, aperto all’esterno tramite portici angolari e una loggia al primo piano in corrispondenza della sala grande centrale a piano terra. A est, il portico dava su un «viridarium parvum» oltre il quale era una cappella 19.

Nel 1500 è menzionata per la prima volta la tenuta della Pelucca a Sesto San Giovanni, che nei due decenni successivi è oggetto di ampliamenti e miglioramenti da parte del ricchissimo Girolamo Rabia, filofrancese e ricordato da Cesare Cesariano tra i nobili milanesi cultori di architettura vitruviana 20. La villa del Rabia è definita alla fine del secolo dal letterato Francesco Ciceri «villam urbanam amplissimam» e alcuni antichi inventari (1582; 1588) ne danno una descrizione abbastanza precisa 21. Essa doveva presentarsi in origine come un’articolata sequenza di edifici, in parte residenziali e in parte agricoli. La casa padronale doveva trovarsi sul fondo di una corte alla quale si accedeva dalla casa del massaro, oggi perduta. Si sviluppava su due piani: a piano terra aveva un portico a sud, quattro ambienti (un salone e tre camere, affrescati da Bernardino Luini nel 1514-1515) e una cappella a nord; al piano superiore si trovavano sette camere, una sala, due «solari da biada» e una loggia sul giardino. Oltre, il giardino è descritto con un labirinto ornato da statue di terracotta; probabilmente era ubicato a nord, dietro la casa padronale e contiguo alla cappella (una soluzione simile alla Gualtera). Vi si trovavano anche un frutteto e un vigneto 22.

Pressoché contemporaneo alla Pelucca è Palazzo Zogna a Bergamo, altro esempio di villa suburbana oggi chiamato palazzo per gli eventi nel frattempo intercorsi che dalla fine dell’Ottocento l’hanno trasformato in ospedale militare, poi in caserma. Edificata per volontà di Paolo Casotti (o Cassotti) de Mazzoleni nel primo decennio del Cinquecento, si trova a circa 2 km dalla Città Alta ed era anticamente lambita da un naviglio. Già in origine presentava due piani: a piano terra il salone aveva un soffitto a padiglione con lunette ad affresco firmate da Andrea Previtali nel 1512 raffiguranti Le arti e I mestieri, incorniciate da fregi di gusto classicheggiante 23.

Ad uno stadio ancora successivo nella definizione delle caratteristiche della moderna villa suburbana appartiene Palazzo Zurla De Poli a Crema. A connotarlo in questo senso è innanzitutto la sua posizione entro le antiche mura cittadine; inoltre, esso non presenta, come vedremo, nessuna delle caratteristiche stilistiche e planimetriche delle ville di delizia site in aperta campagna. Il suo porsi ai margini della città è indizio del fatto che Giacomo Zurla, il fondatore della villa, non desiderava per sé un classico palazzo cittadino.

Palazzo Zurla è un edificio storico sito all’angolo tra le attuali vie Tadini e Bottesini (Fig. 1). Come ci informa un’epigrafe (apparentemente ottocentesca) a lato dello scalone che dal cortile conduce al salone d’onore, la sua edificazione è disposta per testamento nel 1516 da Giacomo Zurla e portato «all’attuale forma secondo il progetto» nell’anno 1520. Gli Zurla erano una famiglia documentata a Crema dalla fine del Duecento: agli inizi del Cinquecento esistevano numerosi rami di questa famiglia che si erano imparentati con le principali famiglie aristocratiche della città e non solo. Giacomo era membro del Consiglio Generale della città e deputato della Fabbrica del Santuario di Santa Maria della Croce, il cantiere rinascimentale sicuramente più importante in città. Era inoltre marito della Contessa Barbara Castiglione, zia del noto Baldassarre 24. Nelle Lettere familiari dell’autore del Cortegiano ci sono una decina di lettere scritte alla madre Aloisia Gonzaga tra 1505 e 1510, in cui lo zio Giacomo è menzionato; a quest’ultimo il Castiglione chiede, a più riprese, prestiti di denaro e cavalli, con esito negativo. Compare anche un «Angelo Griphone da Santo Angelo» 25, che è possibile identificare con Angelo Francesco Griffoni Sant’Angelo (1468-post 1512), personaggio chiave nelle vicende che portano Crema per qualche anno sotto il dominio francese (1509-1512). Secondo lo storico Pietro Terni, egli è uno dei notabili cremaschi che, insieme a Giacomo Zurla, Alessandro Benvenuti e diversi membri della potente famiglia Benzoni – tra cui il potente condottiero Socino Benzoni (1465 circa-1510) – accolgono trionfalmente Luigi xii nel suo ingresso in città nel maggio del 1509 dopo la vittoria contro i veneziani nella battaglia di Agnadello, voltando le spalle a Venezia ma risparmiando la città alla distruzione 26. Come ricompensa, tutti e tre ricevono il titolo di cavalieri dal re in persona ma, una volta cacciati i francesi da Crema nel 1512 e ripristinato il dominio veneto, Giacomo Zurla è mandato insieme ad altri notabili cremaschi per qualche mese in esilio a Grenoble 27.

Il prototipo della villa suburbana rinascimentale italiana è, come noto, villa Farnesina a Roma 28, edificata a partire dal 1506 su progetto dell’architetto senese Baldassarre Peruzzi per Agostino Chigi, geniale punto di incontro tra il palazzo urbano e la villa di campagna. È proprio tale ambiguità a caratterizzare questa particolare tipologia di edilizia domestica sin dalle sue origini. Lo schema architettonico impiegato alla Farnesina è quello di un edificio a U, in cui due ali sporgenti risultano naturali prolungamenti del corpo centrale, arretrato e porticato: nel secolo scorso Karl Swoboda e Kurt Forster lo hanno per primi definito Porticusvilla mit Eckrisaliten 29; è da ricordare come esso conosca grande fortuna in Lombardia tra Sei e Settecento, assurgendo a schema tipico della villa barocca. Ritroviamo questo schema di base, opportunamente riadattato al contesto del suo tempo, anche a Palazzo Zurla. L’attenzione degli studiosi su questo edificio si è finora concentrata quasi esclusivamente sullo straordinario apparato decorativo a fresco realizzato in più fasi per tutta la seconda metà del Cinquecento che decora quattro ambienti dell’ala monumentale dell’edificio, recentemente riportato a uno stato di conservazione ottimale 30; ma anche da un’analisi della sua architettura possono derivare utili spunti di riflessione.

Nel 1520 si era conclusa la costruzione delle mura venete, la nuova cerchia di mura che i veneziani, nuovi dominatori di Crema, avevano fatto erigere tra il 1488 e il 1508; la nuova residenza degli Zurla, che già possedevano diverse case in questa parte della città, veniva a trovarsi fuori dal circuito delle antiche mura medievali, con la roggia Rino che ne lambiva il lato meridionale 31, e a poca distanza dalla nuova cerchia di mura che correva in quel punto della città sul tracciato delle attuali via Mercato-via Stazione. Originariamente la facciata sulla strada era completamente affrescata 32 e al palazzo era annesso un ampio giardino, diverso dall’attuale, che si estendeva sino all’attuale via Placido Zurla, confinando così con l’area in cui anticamente sorgeva il monastero di Santa Chiara. Purtroppo nessuna testimonianza storica è sopravvissuta ad informarci sull’antica conformazione di questo giardino.

L’abitazione si compone di un unico corpo di fabbrica parallelepipedo con ingresso leggermente asimmetrico ad ovest sulla via Tadini, terminante a nord e a sud con due ali poco aggettanti, per cui l’insieme presenta oggi un tipico schema a U. La parte monumentale del complesso, la sola a presentare un ricco apparato di decorazioni a fresco e a stucco, è l’ala meridionale, mentre quella settentrionale è, sebbene molto probabilmente coeva al resto dell’edificio e comunque databile ante 1553 33, priva di emergenze artistiche. Si compone di due livelli che insistono su una cantina, dotata di piccole aperture su via Tadini.

È di grande interesse a questo punto considerare la presenza in origine, nota grazie a una fotografia del 1874, di una loggia monumentale oggi non più esistente ma ancora in piedi agli inizi del Novecento 34 (Fig. 2). Era costituita da cinque archi sostenuti da quattro pilastri di ordine gigante, rivestiti esternamente, sul lato della facciata verso il giardino, da paraste di ordine ionico e completati da piedritti con specchiature rincassate. Le paraste poggiavano su quattro piedistalli in pietra ancora oggi in situ e alti ciascuno metri 1,30 e terminavano con una trabeazione con fregio a piccoli oculi e cornice fortemente aggettante che cinge interamente l’edificio. Analizzando i dettagli, è possibile proporre diversi confronti stilistici con edifici milanesi, romani e cremaschi dei primi due decenni del Cinquecento.

A Milano si trovano significative somiglianze nel prospetto dell’atrio di Santa Maria presso san Celso, realizzato su progetto di Cristoforo Solari tra 1506 e 1513: ritroviamo le stesse soluzioni dei pilastri con semicolonne corinzie (mentre a Palazzo Zurla abbiamo paraste ioniche) poggianti su alto plinto con specchiature rincassate e imposta dell’arco su capitelli d’ordine tuscanico 35. Somiglianze ancora più stringenti nel rapporto tra ordini architettonici si notano nel livello superiore del chiostro dorico di sant’Ambrogio (oggi parte dell’Università Cattolica del Sacro Cuore), uno degli ultimi cantieri milanesi di Bramante, sostanzialmente recuperato nel chiostro di Santa Maria della Pace a Roma (1500). Al decennio successivo appartiene la loggia di villa Madama (1516-1520), una delle ultime creazioni di Raffaello architetto, dove le analogie con gli edifici appena richiamati sono rese ancor più interessanti, ai fini del nostro discorso, per il fatto di trovarle in una delle ville suburbane più sontuose che si andavano costruendo in quegli anni in Italia. Limitandoci al contesto locale, poi, emergono interessanti somiglianze stilistiche con elementi decorativi architettonici di tre edifici progettati da Agostino de Fondulis (documentato dal 1483 al 1522), plasticatore e architetto di origini cremasche ma di formazione padovana e milanese a contatto con Donato Bramante nel cantiere di Santa Maria presso San Satiro (1483), nel secondo decennio del secolo 36. L’impiego di paraste di ordine gigante poggianti su alti basamenti in pietra di ascendenza bramantesca e albertiana 37 e decorati con specchiature si ritrova anche nel Santuario della Beata Vergine delle Grazie e nella parrocchiale dei santi Filippo e Giacomo a Castelleone, due edifici per i quali Agostino è documentato come progettista rispettivamente nel 1513 e 1517. Il sistema dei pilastri con paraste e piedritti nell’aula della parrocchiale (Fig. 3) e l’analogo trattamento della trabeazione, con l’architrave diviso in due fasce, fregio e cornice tripartita fortemente aggettante, come appare nella chiesa di Santa Maria Maddalena e Santo Spirito 38 a Crema (Fig. 4), anch’essa ricondotta al Fonduli, potrebbero costituire altrettanti indizi nella ricerca di una paternità per il progetto di Palazzo Zurla, che in futuro dovrà cercare possibilmente conferma nei documenti.

Per il momento è da ricordare come Agostino si fosse accreditato nel contesto cremasco almeno dall’inizio degli anni Novanta non solo come plasticatore per enti religiosi, ma anche presso le famiglie notabili, che non di rado gli chiedevano consulenze e interventi per abbellire le proprie dimore di città: è da tempo noto il rogito notarile 39 del 1499 con cui Ottaviano Vimercati commissiona a Agostino il «solarium […] porticus […] et […] solarium portichetus», ossia la soffittatura a lacunari e rosoni dipinti d’azzurro e oro per un portico più grande e uno più piccolo della sua casa sita «in vicinia Poyanorum porte Ombriani Creme», ossia sull’attuale via Venti Settembre 40.

L’ambizione dello Zurla di guardare, per la costruzione e decorazione della propria residenza suburbana, in direzione dei maggiori centri artistici del suo tempo fornisce la base per tutti i successivi sviluppi nelle scelte di committenza della famiglia: quando nel terzo quarto del Cinquecento (forse in occasione del matrimonio tra Giulio Zurla e Lucrezia De Marchi nel 1558) il pittore cremasco Aurelio Buso sarà chiamato a decorare il salone d’onore del palazzo, la scelta cadrà, per il tema degli affreschi, proprio sul mito di Amore e Psiche 41. Sebbene la derivazione di questo episodio dell’arte cremasca dall’illustre precedente di Raffaello alla Farnesina (1518-1520) non sia esplicita in Palazzo Zurla 42, essa è comunque suggerita già solo dall’adozione di un soffitto a padiglione in cui l’episodio culminante del mito, il convito degli dei, è delimitato da una cornice con festoni di fiori e frutta 43. Ciò si spiega alla luce della formazione romana di Aurelio a contatto con Polidoro da Caravaggio negli anni immediatamente successivi alla morte di Raffaello, e della sua diretta partecipazione al cantiere di Palazzo Te nell’entourage di Giulio Romano 44.

Ma ciò che rende questo apparato decorativo «la testimonianza senz’altro più rilevante della cultura figurativa non religiosa a Crema nel Cinquecento» 45 è in parte legato alla presenza degli stucchi a fianco degli affreschi, scelta all’avanguardia e di chiara ispirazione classica nel contesto artistico locale della metà del Cinquecento caratterizzato da una secolare tradizione nell’arte della lavorazione della terracotta. A Crema l’unico episodio comparabile ai partiti decorativi di palazzo Zurla è la decorazione plastica delle cappelle del Santuario di Santa Maria della Croce, della quale i documenti non restituiscono l’autore ma con cui sono state poste in evidenza affinità stilistiche 46. Nelle nicchie rettangolari che intervallano le lunette affrescate riconosciamo, sopra un fregio continuo con festoni di frutta e fogliame che funge da imposta della volta, due figure femminili. La prima (Fig. 5) presenta come unico attributo un vaso traboccante di monete: questo potrebbe avvicinarla a un’allegoria della Liberalità 47. La seconda (Fig. 6) potrebbe essere, sempre stando al Ripa, un’allegoria (in questo caso semplificata) della “Riconciliatione d’amore”: «Donna giovane, allegra, coronata d’una ghirlanda d’herbe […] porti al collo un bel Zafiro, nella man dritta una coppa […]. La coppa l’abbiamo posta, poiché in essa si pongono i donativi, che si mandano a presentare…» 48. È ben visibile, nella figura femminile di Palazzo Zurla, il pendente che porta al collo con una pietra preziosa, sebbene di quest’ultima non si possa determinare con certezza la qualità. Tra queste due allegorie femminili si trovano quattro coppie di tritoni e centauri marini affrontati di ispirazione classica (Fig. 7). Esse si inseriscono nella ricca serie di derivazioni dalla Zuffa di dèi marini di Mantegna e annoverano diversi precedenti quattrocenteschi a Crema, Lodi, Cremona e Piacenza: questa invenzione all’antica del maestro padovano costituiva il pezzo forte di Agostino de Fondulis, che ne lascia esemplari certi nei palazzi Landi a Piacenza (1484), Mozzanica a Lodi (1493 circa) e Fodri a Cremona (1501) 49. Inoltre, proprio alla Farnesina Peruzzi realizza nel 1508 un fregio con un corteo marino sulla parete meridionale della Stanza del Fregio in cui compaiono coppie di combattenti, che si differenziano da quelle di Palazzo Zurla per il solo fatto che questi ultimi combattono apparentemente a mani nude. Analoghi esempi di questa raffigurazione in stucco si trovano ancora in altre ville suburbane di inizio Cinquecento, per esempio nel vestibolo di villa Trivulzio a Salone, nei pressi di Roma 50.

Palazzo Zurla costituisce un esempio tutt’altro che isolato di villa nel Cremasco, territorio nel quale sono state censite, allo stato attuale degli studi, 85 ville storiche; è però l’unico esempio noto di villa suburbana. Limitandoci a considerare le ville sorte in data 1520 nei dintorni della città, se per la villa Griffoni Sant’Angelo a Castel Gabbiano è difficile stabilire l’aspetto primo cinquecentesco 51, i due episodi più significativi sono rappresentati dalle ville Vimercati Sanseverino a Moscazzano e Marazzi a Palazzo Pignano, entrambe legate alla committenza della nobile famiglia Vimercati. Questa famiglia attraversa momenti di difficoltà quando il governatore francese, Francesco Durazzo, esilia Ottaviano, figlio di Ambrogio e Caterina Zurla 52. Ma al rientro dei veneziani le cose migliorano nuovamente e le fortune del casato saranno coronate dal matrimonio tra Sermone e Ippolita Sanseverino, figlia di Ugo Sanseverino, generale del duca Galeazzo Sforza, attorno al 1520. La villa di Moscazzano è contemporanea o forse di poco precedente a quella di Palazzo Pignano; anch’essa presenta all’interno alcuni esempi della pittura “antiquaria” di Aurelio Buso 53. La villa di Palazzo Pignano è fondata entro il 1529 54 da Sermone, che doveva essere un personaggio politicamente rilevante già prima del matrimonio con Ippolita, se è vero che nel 1515 ottiene il titolo di Conte del Sacro Palazzo Lateranense per mano di papa Giulio ii 55. In questa villa, chiamata «il Palagio», è probabilmente ambientata la novella 52 della terza parte delle Novelle di Matteo Bandello, dedicata proprio a Ippolita Sanseverino 56.

In entrambi i casi, tuttavia, siamo in presenza di ville site in aperta campagna. Non stupisce, dunque, che il loro impianto architettonico differisca totalmente da quello di Palazzo Zurla: Villa Marazzi a Palazzo Pignano, che pure presenta elementi stilistici di notevole interesse nella facciata interna, è un esempio di villa a corte chiusa, mentre nel secondo caso il corpo della villa non si discosta dalla tradizione consolidata della villa come blocco unico compatto aperto su un giardino che circonda la casa su tutti e quattro i lati. La planimetria e distribuzione interna dei locali adotta lo schema del salone passante di derivazione veneta. La planimetria di Palazzo Zurla ha, complessivamente, profondi legami con l’architettura urbana dei palazzi vicini che sorgono numerosi dalla seconda metà del Quattrocento: all’abitazione si accede direttamente dalla strada, e il giardino si configura come una corte espansa; la stessa loggia del giardino, con l’accesso ai locali interni posto a un’estremità, appare come un’amplificazione del portico interno, elemento tipico del palazzo rinascimentale lombardo. La distribuzione dei locali interni dell’ala meridionale del palazzo (Fig. 8) presenta tangenze con lo schema del salone “a muro di spina” longitudinale, individuato da Luisa Giordano come schema tipico della villa protorinascimentale lombarda e alternativo a quello con salone passante 57, che si ritrova con maggior frequenza nelle ville extraurbane in aperta campagna.

Da questa sommaria analisi delle principali ville suburbane sorte in Lombardia tra Quattro e Cinquecento dovrebbe emergere una rete di relazioni che collegavano le famiglie nobili dei grandi centri come Milano, Roma e Mantova a quelle di una città periferica, ma non isolata, come Crema. Questo dovrebbe aiutare a far luce su episodi apparentemente marginali dell’arte locale come Palazzo Zurla, che si aggiunge ai pochi esempi noti di ville suburbane lombarde protorinascimentali. La sua sostanziale estraneità, nella planimetria e nelle scelte stilistiche, ai precedenti milanesi e bergamaschi più immediati conferma l’alto grado di sperimentalismo che caratterizza questa tipologia architettonica, in bilico tra tradizione artistica locale e le novità della riscoperta dell’antichità classica. Soltanto verso il quarto/quinto decennio del Cinquecento il fenomeno della villa assumerà nuove proporzioni, come risultato di un mutamento avvenuto prima di tutto sul piano culturale: il sempre richiamato passaggio dal negotium alla pratica consapevole dell’otium e una rimessa in discussione del rapporto città-campagna, con rivalutazione del valore di quest’ultima, che era già stata preparata da Paolo Giovio nei primi anni del secolo 58.

* Si desidera ringraziare la Professoressa Maria Concetta Di Natale per l’attenzione a questo saggio e la famiglia De Poli per la disponibilità e i continui scambi di materiali e informazioni sulla loro dimora.

  1. Già in Le ville storiche del Cremasco. Secondo itinerario, a cura di G. Zucchelli, Crema 1998, p. 70. Ciò nonostante, per uso consolidato e per la sua mutata identità nel contesto urbanistico attuale, si continuerà, in questa sede, a chiamarlo palazzo.[]
  2. L. Giordano, «Ditissima Tellus». Ville quattrocentesche tra Po e Ticino, estratto dal “Bollettino della Società pavese di storia patria”, 1988, pp. 250, 275.[]
  3. Eadem, p. 168; C. Perogalli, Caratteri delle ville di Mantova, Cremona, Crema, in Ville delle province di Cremona e Mantova, a cura di C. Perogalli, M. G. Sandri, L. Roncai, Milano 1981, p. 17.[]
  4. L. Giordano, «Ditissima Tellus»…, 1988, p. 237; J. S. Ackerman, La villa. Forma e ideologia, 2a ed. it., Torino 2013, pp. 82-83.[]
  5. L. Giordano, Ancora sulle ville lombarde del primo Rinascimento, in “Opus Incertum”, 2019, pp. 43-44.[]
  6. Sorto attorno al 1495: L. Giordano, «Ditissima Tellus»…, 1988, pp. 269-275; L. Giordano,  Ancora sulle ville lombarde…, 2019, pp. 45-46.[]
  7. Si tratta di un complesso residenziale che comprende la casa padronale («caxamentum») e gli edifici (alloggi e locali per la lavorazione dei prodotti della terra) che compongono l’azienda agricola vera e propria: L. Giordano, «Ditissima Tellus»…, 1988, pp. 233-235.[]
  8. Ville delle province di Cremona e Mantova, a cura di C. Perogalli, M. G. Sandri, L. Roncai, Milano 1981.[]
  9. Ville delle province di Como, Sondrio e Varese, a cura di S. Langé, Milano 1968.[]
  10. N. Soldini, Nec spec nec metu. La Gonzaga: architettura e corte nella Milano di Carlo V, Firenze 2007, p. 58.[]
  11. Ville della provincia di Milano, a cura di S. Langé, Milano 1972, pp. 15-18, 404; V. Fortunato, La cascina Pozzobonelli: indagini sulla proprietà e gli interventi architettonici, in “Arte Lombarda”, n. s., 176/177, n. 1/2, 2016, p. 64.[]
  12. In quell’anno o poco più tardi infatti le pareti del portico, che doveva essere in opera già da qualche tempo, sono affrescate, stando al resoconto del letterato milanese Marcantonio Maioraggio (1514-1555), con scene commemorative della felice ambasciata di Guido Antonio presso il re d’Ungheria Mattia Corvino, avvenuta nel 1488: C. Bertelli, Per una iconografia degli Arcimboldi e delle decorazioni della Bicocca, in La bicocca degli Arcimboldi, a cura di C. Bertelli, Milano 2000, pp. 65-66.[]
  13. L. Grassi, Un esempio di architettura civile di campagna del Quattrocento, in La Bicocca degli Arcimboldi…, 2000, pp. 21-22.[]
  14. L. Grassi, Un esempio di architettura civile…, 2000, p. 23.[]
  15. L. Giordano, «Ditissima Tellus»…, 1988, p. 241.[]
  16. L. Grassi, Un esempio di architettura…, 2000, p. 27 e nota 13.[]
  17. L. Giordano, «Ditissima Tellus»…, 1988, pp. 240-241.[]
  18. N. Soldini, Nec spec nec metu…, 2007, pp. 21, 58; A. Castellano, La villa milanese nella prima metà del Cinquecento. Un prototipo inedito: la Gualtiera-Simonetta, in La Lombardia spagnola, Milano 1984, pp. 105-112.[]
  19. N. Soldini, Nec spec nec metu…, 2007, pp. 11-12.[]
  20. C. Quattrini, Bernardino Luini. Catalogo generale delle opere, Torino 2019, p. 154.[]
  21. M. T. Binaghi Olivari, Affreschi dalla villa Pelucca di Sesto San Giovanni, in Pinacoteca di Brera. Scuole lombarda e piemontese 1300-1535, Milano 1988, pp. 267-268.[]
  22. Ville della provincia di Milano…, 1972, pp. 538-539; M. T. Binaghi Olivari, Il giardino di Gerolamo Rabia nella villa Pelucca a Sesto San Giovanni, in Giardini e parchi di Lombardia. Dal restauro al progetto, a cura di G. Guerci, Cinisello Balsamo 2001, pp. 63-65.[]
  23. Filocolo, Una villa bergamasca: la Zogna, in “Emporium”, xxxiii, n. 198, giugno 1911, pp. 465-478; Ville della provincia di Bergamo, a cura di C. Perogalli, M. G. Sandri, V. Zanella, Milano 1983, pp. 212-213. Gli affreschi delle lunette sono stati staccati nel 1885 e oggi si trovano a Villa Suardi a Trescore Balneario: I pittori bergamaschi dal XII al XIX secolo. Il Cinquecento, i, Bergamo 1975, p. 140.[]
  24. M. Perolini, Vicende degli edifici monumentali e storici di Crema, Crema 1995, pp. 341-342; Le ville storiche del Cremasco. Secondo itinerario…, 1998, pp. 70-71.[]
  25. B. Castiglione, Lettere famigliari e diplomatiche, a cura di G. La Rocca, A. Stella e U. Morando, i, Torino 2016, lettera 136, p. 144.[]
  26. A. Fino, Storia di Crema raccolta per Alemanio Fino dagli Annali di M. Pietro Terni, ristampata con annotazioni di Giuseppe Racchetti per cura di Giovanni Solera, i, Milano 1844, pp. 244-245.[]
  27. Ibidem. Sui collegamenti tra gli Zurla, Socino Benzoni e il partito dei guelfi filofrancesi si veda: P. Venturelli, Tavolette da soffitto cremasche di inizio Cinquecento. Dame e cavalieri da un antico palazzo lombardo, Cinisello Balsamo 2020.[]
  28. J. Connors, J. Montagu, Art and Architecture in Italy 1600-1750, I, New Haven 1999, p. 13.[]
  29. L. Giordano, «Ditissima Tellus»…, 1988, p. 146.[]
  30. I primi contributi scientifici recenti si devono a Stefania Agosti e Gabriele Cavallini: Agosti ha ripercorso le vicende della famiglia Zurla, committente e proprietaria del palazzo fino alla fine dell’Ottocento, e ha individuato le serie di incisioni che stanno alla base di due dei quattro cicli ad affresco che decorano gli ambienti del palazzo; Cavallini ha dato avvio ad un riesame completo della biografia del pittore cremasco Aurelio Buso (documentato dal 1528 al 1582), autore certo di uno dei quattro cicli d’affreschi (in cui compare infatti la sua firma insieme ad una data, parzialmente illeggibile e perciò dibattuta): G. Cavallini, Per la definizione di Aurelio Buso, pittore cremasco del Cinquecento, in “Arte Lombarda”, n. s., n. 140, 2004, pp. 92-100; S. Agosti, Gli affreschi di Palazzo Zurla De Poli a Crema, tesi di laurea magistrale, Facoltà di Studi Umanistici, Università degli Studi di Milano, relatore G. Agosti, a. a. 2013-2014; S. Agosti, Un’indagine su Palazzo Zurla De Poli a Crema, in Un seminario sul Manierismo in Lombardia, a cura di G. Agosti, J. Stoppa, Milano 2017, pp. 58-67; G. Cavallini, Aurelio Buso De Capradossi, protagonista del Manierismo cremasco, in Il Manierismo a Crema. Un ciclo di affreschi di Aurelio Buso restituito alla città, catalogo della mostra a cura di G. Cavallini e M. Facchi, Milano 2019, pp. 23-75; S. Agosti, Nuova luce sugli affreschi di Palazzo Zurla De Poli: i restauri conservativi del 2019, in “Insula Fulcheria”, l, 2020, pp. 195-202.[]
  31. Situazione visibile nelle incisioni di Pierre Mortier (1704) e di Carlo Donati (1857) conservate presso il Museo Civico di Crema e del Cremasco e fotografata ancora in una veduta panoramica del 1936 scattata dal capitano Antonio Viviani prima dell’interramento della roggia nel 1946.[]
  32. Gli affreschi dovevano essere a monocromo ed erano opera di Aurelio Buso, del quale le fonti tramandano simili interventi anche in altri palazzi cittadini: F. S. Benvenuti, Dizionario Biografico Cremasco, rist. an., Bologna 1972, p. 75; G. Cavallini, Aurelio Buso…, 2019, pp. 36, 42-48.[]
  33. A quell’anno infatti risalgono gli affreschi con figure allegoriche (Giuditta, Nemesi, Pandora e una figura maschile in abito eroico) che decoravano i pennacchi interni degli archi della loggia (che quindi doveva anch’essa esistere a quella data; cfr. oltre) firmati e datati da Carlo Urbino (documentato dal 1553 al 1585) stando alla descrizione dell’abate Gian Basilio Ravelli che visita il palazzo nel 1835: G. B. Ravelli, Articolo delle Belle Arti in Crema, supplemento iv a “L’Eco”, 33, 4 marzo 1835; S. Agosti, Gli affreschi…, 2013-2014, pp. 47-48.[]
  34. La sua demolizione non è da imputare agli Zurla, proprietari della dimora fino alla fine dell’Ottocento: nel rogito di compravendita del palazzo, venduto il 3 agosto 1903 da Chiara Parravicini (moglie di Adalberto, ultimo marchese Zurla del suo ramo familiare) a Giovanni Viviani, sono menzionate «le armature di sicurezza che oggi sostengono il porticato».[]
  35. N. Riegel, Cesare Cesariano e la chiesa di santa Maria presso san Celso a Milano, in Cesare Cesariano e il classicismo di primo Cinquecento, atti del seminario di studi (Varenna, 7-9 ottobre 1994), a cura di M. L. Gatti Perer e A. Rovetta, Milano 1996, p. 8 e figg. 5, 6 e 13.[]
  36. Su Agostino de Fondulis in generale: M. Verga Bandirali, Fonduli, Agostino, in Dizionario biografico degli italiani, xxxxviii, Roma 1997, pp. 583-585 (online: https://www.treccani.it/enciclopedia/agostino-fonduli_%28Dizionario-Biografico%29/); S. Bandera, Agostino de’ Fondulis e la riscoperta della terracotta nel Rinascimento lombardo, Azzano San Paolo-Crema 1997. Sulla sua attività di architetto: M. Astolfi, Agostino Fonduli architetto. La formazione e la prima pratica architettonica: il caso di Santa Maria Maddalena e santo Spirito a Crema, in “Annali d’architettura”, 17, 2005, pp. 93-106; M. Astolfi, L’architettura del de Fondulis a Castelleone, exemplum di un “Rinascimento locale all’antica”, in Rinascimento cremasco. Arti, maestri e botteghe tra XV e XVI secolo, a cura di P. Venturelli, Milano 2015, pp. 47-55.[]
  37. M. Astolfi, Agostino Fonduli architetto…, 2005, p. 102.[]
  38. Sulla chiesa di Santo Spirito e Maddalena si veda almeno: M. Verga Bandirali, Pitture nell’ex chiesa di S. Spirito e S. Maddalena a Crema, in “Seriane 80”, 1980, pp. 103-160; M. Perolini, Vicende…, 1995, pp. 365-367.[]
  39. Pubblicato per la prima volta in M. Marubbi, Vincenzo Civerchio. Contributo alla cultura figurativa cremasca nel primo Cinquecento, Milano 1986, pp. 195-196; sul significato del termine “solarium”: M. Verga Bandirali, Contributo alla ricostruzione di una fase cremasca nel percorso di Agostino Fondulo, in “Arte Lombarda”, n. s., 92/93, 1-2, 1990, p. 63.[]
  40. Sull’antico palazzo di Ottaviano Vimercati oggi sede di una banca: M. Perolini, Vicende…, 1995, pp. 371-374; L. Ceserani Ermentini, Tavolette rinascimentali. Un fenomeno di costume a Crema, Azzano San Paolo-Crema 1999, pp. 61-115.[]
  41. La paternità degli affreschi è stata variamente riferita in passato ad Aurelio Buso o a Giovanni Battista Castello, detto il Bergamasco (Gandino, 1525 circa-Madrid, 1569), pittore, architetto, stuccatore, allievo e collaboratore di Buso. Per lo stato della questione: Le ville storiche del Cremasco. Secondo itinerario…, 1998, pp, 78-79; G. Cavallini, Aurelio Buso…, 2019, pp. 41-48; S. Agosti, Nuova luce…, 2020, p. 199.[]
  42. Come ha scoperto Stefania Agosti, le singole scene del ciclo di affreschi di Amore e Psiche di Palazzo Zurla derivano da una diversa fonte: S. Agosti, Un’indagine su Palazzo Zurla De Poli…, 2017, pp. 59-60.[]
  43. Le ville storiche del Cremasco. Secondo itinerario…, 1998, pp. 78-79; S. Agosti, Un’indagine su Palazzo Zurla De Poli…, 2017, p. 59, nota 6.[]
  44. G. Cavallini, Per la definizione…, 2004, pp. 95-96; G. Cavallini, Aurelio Buso…, 2019.[]
  45. G. Bora, La cultura figurativa del Cinquecento a Crema e la decorazione a S. Maria della Croce, in La Basilica di Santa Maria della Croce a Crema, Cinisello Balsamo 1990, p. 105.[]
  46. Giulio Bora ha datato gli stucchi delle cappelle del santuario cremasco ante 1555 e ha ravvisato «sorprendenti analogie tipologiche e ornamentali» con gli stucchi di Palazzo Zurla; per entrambi ha ipotizzato la regia di Giovanni Battista Castello (G. Bora, La cultura figurativa…, 1990, pp. 113-115). Un punto di vista diverso è stato proposto da Cesare Alpini, che ha datato gli stucchi del santuario agli anni 1584-1585 e li ha avvicinati a Giovanni Da Monte, riscontrando in essi «elementi evoluti della Maniera», dunque evidenziandone le diversità rispetto alle soluzioni più classiche e composte di Palazzo Zurla (C. Alpini, Giovanni Da Monte. Un pittore da Crema all’Europa, Bergamo 1996, pp. 99-103).[]
  47. In Cesare Ripa si trovano tre diverse iconografie della Liberalità. Essa è descritta come una donna che «nella destra mano tenga […] un cornucopia alquanto pendente, col quale versi gioie, danari, collane, & altre cose di prezzo»: C. Ripa, Iconologia, a cura di P. Buscaroli, Milano (1992) 2019, p. 248; altrove è indicata come una donna che «tenga appoggiato al sinistro fianco un bacile pieno di gemme, e di monete d’oro, delle quali con l’altra mano habbia preso un gran pugno, & le sparga ad alcuni puttini ridenti […] Il Pierio Valeriano assegna per antico Ieroglifico di liberalità, il bacile solo, il quale noi accompagniamo con l’altre cose per compimento della figura»: C. Ripa, Iconologia…, 2019, p. 250.[]
  48. C. Ripa, Iconologia…, 2019, pp. 382-384.[]
  49. S. Bandera, Agostino de’ Fondulis…, 1997, pp. 89-99, 109-119.[]
  50. A. Bonavita, Villa Trivulzio alle sorgenti di Salone, Milano 2020, pp. 167-168.[]
  51. L’unica testimonianza della villa nel periodo che qui interessa è costituita da un soffitto con tavolette della seconda metà del Quattrocento con ritratti di personaggi, animali e stemmi araldici, tra cui la testa di grifo dei Griffoni, prova che la proprietà era già in possesso di questa famiglia nella seconda metà del Quattrocento: Le ville storiche del Cremasco. Primo itinerario, a cura di G. Zucchelli, Crema 1997, p. 237.[]
  52. L. Ceserani Ermentini, Le tavolette da soffitto rinascimentali, in “Insula Fulcheria”, xv, 1985, pp. 90-94.[]
  53. G. Cavallini, Aurelio Buso…, 2019, pp. 37-38; p. 55.[]
  54. Le ville storiche del Cremasco. Primo itinerario…, 1997, pp. 19; 65-78.[]
  55. F.S. Benvenuti, Dizionario…, 1972, p. 301.[]
  56. Non si tratta peraltro dell’unica testimonianza di un legame di Bandello con Crema e il Cremasco: un’altra novella (I, 34) è dedicata a Ludovica Sanseverino Landriani, moglie di Galasso Landriani conte di Pandino e sorella di Ippolita; Bandello è loro ospite nel castello di Pandino e nella villa di Spino d’Adda tra 1515 e 1521: M. Bandello, Novelle, Milano 1990, p. 579.[]
  57. L. Giordano, «Ditissima tellus»…, 1988, pp. 248-249 (per lo schema della villa con muro di spina); 206 (per lo schema della villa con salone passante); L. Giordano, Ancora sulle ville…, 2019, pp. 48-49.[]
  58. R. Cassanelli, Ville di delizia. Storia, gusto, cultura dei «palagi camparecci» nel territorio di Milano tra tardo Medioevo ed Età dei lumi, in Ville di delizia nella Provincia di Milano, a cura di R. Cassanelli, M. Azzi Visentini, S. Langé, Milano 2003, pp. 33-35.[]