Vittorio Ugo Vicari

Modellati alla moda. Abbigliamento, acconciatura e ornamento nella scultura marmorea del Rinascimento in Sicilia

vittoriougo.vicari@gmail.com
DOI: 10.7431/RIV27012023

Il presente saggio* tenta una cifra stilistica e modale delle élite siciliane con l’avvento di quel particolare “Rinascimento” affermatosi all’indomani delle imprese alfonsine, nella convinzione oramai comunemente accettata dalla storiografia contemporanea che l’abito ritratto in pittura e in scultura nella più parte dei casi sia la fedele riproduzione delle vesti indossate al tempo 1, testimonianza della sua cultura materiale. Sotto il profilo letterario principiamo dai prolegomeni di Maria Accascina ad alcuni allora Inediti del Rinascimento in Sicilia 2, poiché ci pare emerga in essi con immediatezza di tratti il coinvolgimento umanistico di alcune aristocrazie isolane che ritroveremo, post mortem, ritratte in un complesso guardaroba di estrazione urbana, marziale ed ecclesiale. A un nucleo relativamente ristretto di personalità e famiglie la studiosa fa risalire l’introduzione degli stilemi scultorei rinascimentali nelle corti capitoline e metropolitane come nei feudi, con “un ritmo pulsante di opere” che non poteva essere sostenuto dalle maestranze locali e che richiese il contributo, il trasferimento, l’insediamento talvolta generazionale di maestri lombardi e toscani che qui fecero scuola. Il linguaggio vestimentario di quelle élite fu composito riflesso di molteplici impulsi culturali, etnici, mercantilistici, militari, onorifici; più in generale fu espressione di gusti e mode internazionali sovente aggiornati alle tendenze umanistiche continentali. In tal senso può dirsi che le vesti, le acconciature e gli ornamenti riferiti nella scultura in marmo del “Rinascimento” siciliano furono pienamente partecipi del dibattito culturale allora in corso, parte visibile, al pari di altre manifestazioni (territoriali, urbanistiche, architettoniche, artistiche, spettacolari e letterarie), della mobilissima società isolana tra Quattro e Cinquecento; o almeno in tale prospettiva ci piace pensarle. Con esse manifestazioni la moda condivise il trapasso dalla civiltà franco-gotica e gotico-catalana verso nuovi linguaggi più propriamente italiani o cosiddetti “all’italiana”, ove lungamente convissero stilemi trecenteschi, novità esotiche, citazioni classiciste, evoluzioni cosiddette di “campagna” 3, per il conseguimento di una koiné vestimentaria non dissimile da altri luoghi e contesti continentali 4.

Modus operandi

Dalla documentazione edita sulla scultura del Rinascimento in Sicilia è possibile derivare alcuni tratti salienti dei desiderata committenti, delle loro relazioni con i maestri di bottega, dell’impegno di quest’ultimi nel tentativo di onorarli. Appare oggi chiaro, ad esempio, come la ricorrente richiesta di utilizzo di marmi bianchissimi e senza imperfezioni fosse maggiormente improntata alla successiva policromia e doratura delle superfici, fino all’ottenimento di vere e proprie imagines depictae 5, pratica di ascendenza greco-romana che perdura o viene rivivificata fortemente con l’avvento della civiltà rinascimentale, la quale rende vibratili non solo le anatomie, ma di più le vesti, i panneggi, gli incarnati e le acconciature. Il caso forse più emblematico in Sicilia è la testa di Giovinetto che Antonello Gagini scolpisce intorno al 1490 (Fig. 1). Il ragazzo rimarca la moda giovanile italiana della seconda metà del Quattrocento, quando s’andava in farsetti abbottonati su di un’alta pistagna su cui era possibile vestire una comoda giubba, ovvero una giornea piana o incannucciata, accollata sul davanti e ampiamente scollata sulla nuca, declinata in molteplici varianti 6. Gli fa il paio l’altra testa giovanile dell’Abatellis, attribuita a Domenico Gagini e forse ritraente Nicola Antonio Speciale, figlio di Pietro 7. Qui è più evidente il completo di farsetto e di giubba che nella parte posteriore sprofonda in uno scollo a V (Fig. 2) in tutto simile ai modelli femminili dell’epoca 8. Non è questa la sede per approfondire i linguaggi delle mode giovanili italiane entro la disfatta di Pavia e il Sacco di Roma (1525, 1527); sarà bene tuttavia rimarcare che si tratta di una moda efebica, imberbe, con taglio di capelli lunghi, dialogante al punto con quella femminile da risultare “ambigua” 9. Sono i prolegomeni formali di una civiltà delle buone maniere che condenserà di lì a poco ne Il Cortegiano di Baldassare Castiglione (1528, formulato per appunti a partire dal 1513) e che ha come saldo confine il concetto di “sprezzatura” 10; e fa bene la Damianaki 11 ad approfondire in un capitolo la questione del decorum femminile nel più ampio contesto della ritrattistica aragonese, perché a ben vedere la posatura degli sguardi nelle sculture di questa generazione sembra ricondursi in tutto e per tutto a quella “ben coltivata” maniera cortese.

Sotto il profilo che più ci interessa, la maggior parte delle fonti archivistiche corrobora l’idea di un’attitudine lussuosa la quale, anche se espressa in un solo caso (cum luxu), si rafforzerà nelle descrizioni letterarie, ad esempio del San Nicola da Bari in cattedra di Antonello Gagini, (1522, marmo, dorato, dipinto, Randazzo, CT, Chiesa di San Nicola da Bari):

«… quelle vestimenta che paiono spinte dall’interno moto vitale: come vi sono trovate le pieghe! come eseguite! Non ne cavò il Gaggini di più larghe e più vere da altro marmo: e più che ogni altra statua è meraviglioso in questa il lavoro con ch’ei seppe mostrare la varietà dei drappi e del piegar di essi.

Non trovi nulla di massoso, di stentato, di duro in quello intrattabil broccato della pianeta. Finissimo di ricami, non si potea far più luccicante, più vero, o con più spontaneo scendere e sinuare ondeggiando sul petto o sulle ginocchia: ti par proprio di poterne alzare il lembo per vedervi sotto tutto l’altro andare delle pieghe più morbide e più cascanti del camice.» 12.

In ordine cronologico, riporto lo stralcio dei documenti consultati:

Giacomo di Benedetto, 8 giugno 1500 (?), nei riguardi di Pietro La Pichulilla da Gangi, per la locale Chiesa di Santa Maria di Gesù, vende e s’impegna a consegnare la statua in marmo di una Madonna con Bambino: «… item teneatur deorare seu deorari facere capillos d(it)te imaginis gloriose virginis de oro … lu reversu di lu mantu farilu coloriri et farichi mettiri culurj di azolu finu …» 13.

Antonio (Antonello) Gagini, 8 novembre 1499, nei riguardi del presbitero Giovanni Capra da Nicosia, per la Chiesa di Santa Maria Maggiore della medesima “terra”, s’impegna a realizzare un’ancona marmorea: «Que icona debet esse optime et eleganter sculta, cum luxu di li dicti figuri di surlevu.» 14.

Antonello Gagini, 26 novembre 1506, nei riguardi del canonico reverendissimo Don Alonso de Cardinas e di Donna Caterina de Cardinas alias de Montecatini, siracusani, per la locale Chiesa di San Domenico s’impegna a scolpire il monumento funebre di Giovanni Cardinas: «… cum pacto chi la figura di lu mortu sit et esse debeat vistuta cum unu mantu blancu fin di li pedi et cum una cruchi a lu pectu di li armi di Sanctu Jacubu et un curduni che xindi fin a li pedi …» 15.

Domenico di Pellegrino, 30 dicembre 1508, nei riguardi di Gaspare de Aliberto da Nicosia, s’impegna a realizzare il monumento funebre per il defunto Federico Catanese (da destinare ad una non meglio precisata sepoltura a Nicosia), alla stessa maniera di quello eretto alla memoria del Magnifico don Pietro di Bononia, giacente presso la Chiesa e Convento di San Francesco d’Assisi in Palermo: «… dictus magister Dominicus teneatur sculpire bene et magistraliter figuram condam no. Friderici Cathanisi cum cappello in capite et libro in manibus et planellis in pedibus, …» 16.

Giuliano Mancino, 19 febbraio 1512 (1513) vende al chierico Giovanni di Rixifina, procuratore della Chiesa Madre della “terra” di Castanie (?) una statua effigiante Santa Caterina: «… quam dictu magister Julianus teneatur illustrare et mettirila a punto de auro et aczolo fino, ita et taliter quod sit huiusmodi figura bene decorata et hornata more solito et consueto: cum hoc, quod capelleria sit et esse debeat tota deorata» 17.

Antonio (Antonello) Gagini, 4 marzo 1520, nei riguardi di Gerardo di Sigerio, Giacomo Antonio di Ferro e Mastro Giacomo Greco, Rettori della Chiesa di San Giacomo di Trapani, s’impegna a realizzare una statua effigiante San Giacomo maggiore: «… cum bordono marmoreo in mano et cum cappello darreri li spalli, …» 18.

Antonello Gagini, 24 aprile 1521, nei riguardi di Palma di Sanrocco, Caterina di Filippo e Giulia di Ramundino, sorelle ed eredi del defunto Pietro Antonio de Guerrerio, s’impegna a realizzare la lastra tombale di quest’ultimo per la Chiesa della Confraternita di San Michele, Palermo: «… cum quodam plumacio subtus caput, cum eius berrecta in capite et cum una mustra di stufia et circum circa litrizatam licteris ad elezione ipso rum heredum, cum paternostris in minibus et spata et cum li tappini in pedi in dicta balata, cum facie similitudinis dicti condam, …» 19.

Antonio (Antonello) Gagini, 21 ottobre 1522, nei riguardi del presbitero Giovanni Pietro di Santangelo da Randazzo, procuratore della Chiesa parrocchiale e Collegio di San Nicola, s’impegna a realizzare una statua effigiante San Nicola da Bari in cattedra: «… induto cum ejus casubla cum soi ricamamenti et lavuri di borcato; …» 20.

Antonio (Antonello) Gagini, 22 novembre 1524, nei riguardi dell’Illustrissimo Don Ettore I Pignatelli (m. 1536) – Conte e Duca di Monteleone, Luogotenente e Capitano Generale di Sicilia (1517-1534/35), nonché Maestro Portulano del Regno di Sicilia (dal 1525) – si impegna a realizzare tutta una serie di statue marmoree, da destinare verosimilmente alla sua residenza palermitana, Palazzo Monteleone (vista la chiamata a testimone del suo guardarobiere Giovanni Aloisio da Lentini), tra cui: «… Item la imagni seu figura di Santu Micheli, armatu ala antiqua … […] Item la imagini seu figura di la Magdalena […] scapillata, cum li capilli pendenti. …» 21.

Antonello (Antonello) Gagini, 20 marzo 1524 (1525), nei riguardi del Magnifico Mariano di Accardo, s’impegna a realizzare un monumento funebre per sua moglie Giovannella e per il figlio Camillo, alla stessa maniera del monumento di Eufemia di Requisens, eretto presso la Chiesa e convento di Santa Maria degli Angeli in Palermo: «Item, chi li vestimenti et la cultra di dicti imagini si hagiano a laborari di brucato ad electioni et voluntati di dicto magnifico Marianu» 22.

Antonio (Antonello) Gagini, 20 settembre 1526, nei riguardi del Reverendo Monsignor Lodovico Platamone, Vescovo della Diocesi di Siracusa, s’impegna a realizzare tre statue marmoree. La prima, una Maria Santissima della Grazia, con Bambino, con un basamento scolpito su tre lati: al centro raffigurante in bassorilievo la Natività; a destra lo stesso Monsignor Platamone “cum mitra et cappa”, le mani giunte in preghiera e la croce al braccio; a sinistra la sua arme vescovile. La seconda, una Santa Lucia. La terza, un San Marciano Vescovo di Siracusa: «… cum mitra et cappa frisata et laborata ad medium burcatum, et suptus cappam, chi demustra lu paliuni …» 23.

Antonello Gagini, 24 settembre 1526, nei riguardi di Antonino Platamone, Barone di Risicallà etc., si impegna a realizzare l’arco della cappella di quegli (Platamone) da erigersi nella Chiesa di Santa Cita in Palermo. L’opera, per sua natura composita, ai piedi della Madonna dovrà rappresentare: «… Ottavium imperatorem, marmoreum, vestitum pontificaliter …» 24.

Antonello Gagini, 27 febbraio 1535, nei riguardi di Nicola Caracappa e Antonio Sagurusu, entrambi da Caltabellotta ed entrambi Rettori della Confraternita di San Benedetto in detta “terra”, s’impegna a realizzare due statue, rispettivamente di San Benedetto e di Maria Santissima della Consolazione. La statua del Santo è così illustrata: «unam imaginem Sancti Benedicti, barbati, detinentis sub pede dextro demonem incatinatum, cum sua mitra episcopali in capite et cum cappa pontificali …» 25.

Antonello Gagini, 19 luglio 1535, nei riguardi del presbitero Antonino Bruno da Sciacca e Benedetto di Benedetto da Palermo, s’impegna a realizzate una statua marmorea di San Calogero: «… cum barba longa, indutam habitus Sancti Basilii, cum quodam libro in manu et baculo in alia manu, …» 26.

Antonino Gagini, 5 luglio 1545, nei riguardi di Suor Francesca di Orea, del Monastero di San Salvatore in Alcamo, s’impegna a realizzare una statua marmorea di San Benedetto, con: «… vestitam episcopalem cum la mitra et la crocza, cum anulis in digitis sine cirotecis [ovverosia i guanti], et deoratam di brocato riczu …» 27.

Fazio Gagini, 12 dicembre 1545, nei riguardi del presbitero Giovan Pietro Mulè, procuratore della Chiesa Madre di Caltabellotta, si impegna a realizzare una statua marmorea della Madonna col Bambino: «Et la testa de la Beata Virgini et di lo Cristo sia diorata: et circum circa lu manto tanto di la immagini di Nostra Donna, quanto di lo Cristo, chi sia un frixo di orlo diorato» 28.

Antonio (o Antonino?) Gagini, 17 aprile 1563, nei riguardi di Laura Caterina di Orioles, Baronessa di Fontana Fredda, s’impegna a realizzare un monumento funebre in marmo di Carrara per la stessa e per suo marito Giovanni Francesco Orioles, alla stessa maniera del monumento di Giovanni Battista, loro figlio, eretto presso la Chiesa di santa Cita in Palermo: «… chi habbia di essiri scolpta di mezzo relevo dicta signora Laurea Catherina vestita monacali, et supra dicto monimento chi havi di fari la persuna di lo quondam spectabili Iohanni Francisco di Oriolis, suo olim marito, scolpita et relevata et armata in armi bianche iuxta la forma di dicto altro monimento, scapillato con li soi capilli riczi, con lo suo guardapulviri …» 29.

Giacomo Gagini, 16 ottobre 1586, nei riguardi di Costanza di Amodeo, moglie di Nicola di Amodeo, figlia ed erede universale della defunta Francesca di Cino, a suo volta madre della defunta Signorella di Lacio (ragione per cui Costanza e Signorella sarebbero sorelle), nel rispetto delle volontà testamentarie di detta Signorella, si impegna a realizzare una statua marmorea di San Pietro, da collocare sulla parte destra dell’altar maggiore presso la Chiesa Madre di Alcamo: «In primis fari la dicta imagini di Santo Petro apostolo, chi staya a la dritta cum vistitu apostolico, di tuttu relevo, …» 30.

Volti a levante

In che direzione guardi l’ignoto gentiluomo messinese dalla testa barbuta (Fig. 3), quale il suo orizzonte escatologico, sta tutto in un’attitudine levantina e in un turbante che gli cinge il capo. Volutamente ritratto alla maniera “araba” 31, egli fu probabile testimone non di una biografia particolare, ma di una città e di un territorio che fino alla scoperta delle nuove americhe ebbe importantissimo ruolo quale scalo commerciale e testa di ponte essenziale per gli imbarchi e sbarchi nel Mediterraneo d’età medievale e moderna. Il suo esotismo è l’esotismo di un’epoca fortemente intrisa e dialogante con l’area del Maghreb, del Vicino, del Medio e dell’Estremo Oriente. Le testimonianze di tale direzione sono molteplici fuori e dentro dell’isola. L’uso del turbante nelle fogge maschili e femminili fu l’antefatto di acconciature sempre più complesse che s’articolavano in avvolgimenti del capo emulativi, imitativi, sperimentali e perciò stesso nuovi nel panorama delle mode europee. Ne derivarono almeno due modalità: gli avvolgimenti della testa a partire da lunghe trecce di capelli i quali, se sciolti diedero corso all’italiano “coazzone” o “trincale” (dall’omologo tranzado spagnolo, voga iberica documentata a partire dal 1410) 32, se raccolti concorsero allo sviluppo dell’iberico rollo 33, dell’italiano “balzo” e della successiva “capigliara”; nella moda maschile quell’attitudine levantina si traduce in eleganti “mazzocchi”: veri e propri copricapi evoluti in modalità e forme sempre più bizzarre tra Quattro e Cinquecento. Tra i casi della scultura in marmo della Sicilia scelgo l’episodio laterale sinistro della vita di Santa Caterina d’Alessandria, alla base della statua eponima scolpita da Giandomenico Mazzolo entro il primo ventennio del XVI secolo per l’omonima chiesa di Montalbano Elicona (ME) 34. Qui la Santa è a colloquio dottrinale con l’Imperatore Massimino (Daita) e la sua cerchia curiale, dove si distinguono due retori in elegante mazzocco (Fig. 4).

Nell’ambito della scultura in marmo una forma a turbante deve esser considerata l’acconciatura che ritrae la bella Laura de Asaro e Barresi 35 (Fig. 5), con un ampio tessuto che si sviluppa intorno alla scriminatura centrale dei capelli. Composta in coazzone è la capigliatura della Giovane donna di Francesco Laurana 36, non sciolto sulle spalle ma raccolto intorno al capo e chiuso in una vaghissima cuffia che lascia intravedere, anche qui, la scriminatura centrale della chioma. Cuffie che nella Sicilia tardo gotica erano dette cajole e che – ampiamente rappresentate tra gentildonne e dame del soffitto ligneo della Sala Magna di Palazzo Steri (1377-1380), ovvero ne Il Trionfo della morte di Palazzo Sclafani (post 1440-1441, oggi Galleria Interdisciplinare Regionale della Sicilia) – primeggiano ancora nella seconda metà del Quattrocento tra le ragazze in vaghissimi veli o reticelle di lino, di cotone e di seta, di filati dorati, argentati, imperlati, ingemmati. Così, l’altra testa muliebre accosta al Laurana nell’allestimento di Palazzo Abatellis 37 (Fig. 6), così la giovane Cecilia Aprile sul coperchio del suo sacello 38 (Fig. 7); In questo secondo caso tutto è molto ben modellato nella vaghezza del marmo che lascia intravedere l’acconciatura in coazzone, raccolta in una cofia de tranzado da cui sbuffano con giovanile scompostezza alcuni cirri di capelli sciolti a lato del viso.

A latere della biografia di uno scultore illustre come Antonello Gagini, segnalo in questa sede un documento edito e noto che rivela un tratto inedito ed esotico. Alla sua morte (die XXII aprilis, XI indizione, 1536) lo scultore lascia un ristretto numero di indumenti e un “albornoso” che Di Marzo subito segnala giustamente come “specie di turbante, di origine e nome moresco” 39. Si tratta dell’arabo al burnus (anche albernuozzo, a Napoli, albernos, in Spagna e Portogallo) che identifica tanto una diagonale di lana grossolana con cui si confezionava un ampio mantello con cappuccio e nappe, quanto “un berretto alto, e poi un abito munito di berretto o cappuccio, portato prevalentemente dai monaci cristiani e poi, a imitazione di essi, dagli asceti musulmani” 40. Che avesse ragione Di Marzo o che si trattasse del suddetto mantello da pioggia, ci piace pensare Antonello Gagini partecipe delle consuetudini multietniche e cosmopolite del suo tempo, cittadino palermitano tra Quattro e Cinquecento come ai tempi della civiltà arabo-normanna. Anche se in una casistica ristretta, è possibile pertanto affermare che le mode levantine erano diffuse in Sicilia nei più diversi ranghi sociali: del popolo, della “mercantanzia”, dei maggiorenti e delle maestranze urbani.

Alla moda degli antichi

Il riferimento all’antico è parte ineludibile dell’impresa rinascimentale italiana in Italia, “all’italiana” nel resto d’Europa. Resta la vexata quaestio se codesto citazionismo fosse un riflesso meramente ideale o se corrispondesse, in alcuni casi, a delle ben precise pratiche vestimentarie nelle corti nostre 41. Un bassorilievo di ignoto raffigurante Elpide, la Speranza (Fig. 8), recentemente è stato ricondotto ad ambito veneto e accostato in via dubitativa al padovano Vincenzo Grandi (1493-1577/1578) 42. Un secondo bassorilievo di Giovan Angelo Montorsoli raffigura la Maddalena in doppia tunica paludata, alla maniera delle genti romane (Fig. 9) 43. La doppia tunica (in latino: interior ed exterior) è completo di vasta fortuna nel mondo mesopotamico e mediterraneo antico; anche in questo caso dobbiamo soprassedere, ma sarà bene ricordare che il lascito delle istituzioni romane alla civiltà europea medievale e moderna va misurato anche da questi indizi non secondari, se è vero come è vero che il corredo di vesti sottane e soprane perdurerà nelle guardaroba femminili, in forme dissimulate, fino al Grand Siècle, classicista, francese. L’abbigliamento e l’acconciatura che Maddalena ha scelto è nel solco di una moda archeologizzante che trova riscontro in almeno due opere del tardo Quattrocento toscano, entrambe riconducibili a Sandro Botticelli e alla sua bottega, entrambe associate al sembiante di Simonetta Cattaneo Vespucci (1453-1476) 44. I suoi vestimenti, ancorché postumi, sono verosimilmente inquadrati da Botticelli nella sfera mitologica e idealmente neoplatonica delle giostre, dei Trionfi e delle feste di primavera, sulla scorta di programmi poetico-encomiastici redatti da Agnolo Poliziano sotto l’egida dei Medici e di Giuliano (entro il 1478) in particolare 45. Le origini fiorentine del Montorsoli non possono immaginarsi disgiunte da quel tempo esemplare, esse riecheggiano ancora alla metà del Cinquecento quando lo scultore è attivo a Messina (1547-1557) 46, dialogante in una cerchia di famiglie anch’esse d’origine toscana (Borghini, Corsi, Corvaja, Scali) che furono cuore pulsante della vita culturale locale 47. Né estranea a quella congerie deve ritenersi la Speranza messinese, sebbene di mano e ambito differente, dalla chioma sciolta e raccolta in un vago copricapo riconducibile anch’esso alla nozione di cuffia, ma oblungo e ricadente sulle spalle. Entrambe le “donne esemplari” indossano una veste togata, e dico “veste” perché, come la tunica la toga non era un amictus ma un indumentum e come tale assume per il cittadino romano il carattere di insegna, ne delimita lo status urbano e onorifico, gli viene tolta nel caso di indegnità, di detenzione, di esilio. Nel Rinascimento italiano e nel Classicismo europeo che da esso derivò, tale insegna mantiene un carattere fortemente simbolico e veste ancora gli ottimati dell’urbe nel primo Settecento francese, in forme adeguate alla moda del tempo ma con simile valore emblematico, vedi il Ritratto virile (1700 ca., olio su tela, Bucarest, Museo Nazionale d’Arte), o il Ritratto di un magistrato di Parigi (1703, olio su tela, Detroit, Institute of Arts), entrambi opera di Nicolas de Largillière.

Alla moda dell’urbe

Nello spazio urbano della città siciliana tra Quattro e Cinquecento, per sua natura composito, convivono immagini cortesi, ecclesiali, militari, del popolo operoso, di quello reietto. La sua descrizione è ampia e complessa anche nel ristretto ambito della scultura in marmo; dovendo scegliere un punto d’abbrivio, scelgo un episodio della pila dell’acqua santa in Cattedrale a Palermo, opera di Domenico Gagini databile ante 1475-1480 che raffigura una Cerimonia di benedizione del fonte battesimale, e di nuovo l’Accascina da cui traiamo alcune suggestioni e ipotesi:

«… a destra il Vescovo, forse Gualtiero Offamilio che legge le parole del rito e dietro, il popolo e donnine genuflesse; a sinistra una regina ed un re e dignitari e bimbetti irrequieti: un procedere lento, una attenzione protesa, un gran silenzio tutto ottenuto con rapporto tra volumi e spazi, pieghe illuminate e solchi di ombre; altezze degradanti da una parte e dall’altra come nei frontoni dei templi greci, una misura, un ritmo classico mai ancora visto in Sicilia.

Ma guardiamo anche quella folla che assiste: il gruppo delle tre donnine con la mantella alla catalana, con volti sfioriti e stirati come quelli delle altre che pregano nella nicchia della sacrestia della Chiesa di Santa Barbara a Castelnuovo di Napoli, … e poi anche, ad uno ad uno, quei popolani con i berretti aderenti alla testa ed i volti pur così attenti e vivaci e plasticamente modellati, l’un dopo l’altro diversi e tutti espressivi di un’umanità profonda così come ci appaiono sempre i ritratti di Domenico Gagini come, ad esempio, il ritratto di Pietro Speciale nel Palazzo Raffadali a Palermo, bellissimo nella sua maturità incipiente ma ancora ricco di pensiero e di volere nello sguardo.» 48.

La coralità del bassorilievo ci aiuta nella comprensione della dimensione urbana capitolina, con tutti i suoi principali ranghi ossequiosi ed eleganti ciascuno a suo modo, nell’occasione di un’importante celebrazione pubblica rituale: i sovrani, un alto prelato che officia il rito, Gualtiero Offamilio (morto nel 1190, Vescovo di Palermo dal 1168-1169) nell’ipotesi della studiosa, i maggiorenti della città, il popolo, alcuni bambini. I maggiorenti indossano tutti ampie sopravvesti che rientrano nella nozione di “roba” (ovverosia la componente più lussuosa della guardaroba familiare): che si tratti del “lucco” di ascendenza toscana, indossato dal notabile immediatamente dietro il Vescovo, chiuso sul davanti e con due tagli sartoriali sul torace per la fuoriuscita del braccio 49; o del giovanile robone, ancora più indietro, sulla sinistra; o, ancora, del cambellotto, della palandra, etc., in un’ampia gamma di capi (potremmo dirli cappotti, con un termine moderno e inappropriato per allora) all’uso del tempo, sovente lunghi fino alla caviglia, ampiamente manicati, che si addicono all’uomo elegante della seconda e della terza età (Fig. 10).

Nell’abbigliamento dell’uomo in età d’armi la componente marziale è molto alta e tale rimarrà fino a tempi relativamente recenti; per questa ragione i due esempi che seguono vanno considerati parte ben visibile e onorifica della società civile nell’urbe. In una sopravveste calzante dalla testa, con ampi spacchi laterali che riecheggiano il lucco 50 è ritratto il Cavaliere Antonino Speciale (Fig. 11) figlio di Pietro, membro dell’Ordine del Toson d’oro pendente da una catena, che tuttavia doppia in modo assai strano, con il sapore di un “pentimento”; in robone il giovane regius miles del Museo Diocesano di Palermo (Fig. 12) 51. Nell’abbigliamento di quest’ultimo si avverte uno scarto generazionale rispetto alla mise dello Speciale, quando a fine Quattrocento i giovani andavano vestiti in maniera più discinta, con camicie molto voluminose e ampi scolli a barca (ovvero da spalla a spalla) o stondati. È questo il compimento ultimo della moda italiana a cavallo tra la fine del Quattrocento e non oltre gli anni ’30 del Cinque, fortemente dialogante, come detto, con l’abbigliamento e le acconciature femminili. Esso s’integrava ancora con il farsetto, il dubletto, lo zuparello, ma aperti sul torace in altrettanto ampi scolli a barca o quadrati; oppure s’integrava con un nuovo capo detto “saio”, di mediazione mitteleuropea e forse all’origine bizantino, ché molto pare abbia a che fare con gli antichi skaramangion e dibetision costantinopolitani. Il completo del giovane regius miles palermitano si correda d’un morbido robone allacciato al centro del torace, in una foggia sartoriale non lontana dall’omologa veste indossata da un altro giovane, ma veneziano, nel dipinto che illustra L’Arrivo degli ambasciatori inglesi presso il Re di Bretagna, episodio delle Storie di Sant’Orsola di Vittore Carpaccio (1490-1495, telero, Venezia, Galleria dell’Accademia, part. di sinistra).

Un linguaggio prossimo all’abbigliamento del miles palermitano è adottato da un ignoto componente della famiglia Barresi (Fig. 13), recentemente attribuito per via dubitativa ad Antonello Gagini e datato a circa il 1520 52. Assai simili sono, pertanto, i tagli sartoriali della camicia e del robone, a dimostrazione del seguito che ebbe la moda delle corti rinascimentali italiane per qualche decennio ancora; qui però s’impone un copricapo diffuso nella moda maschile nord e mitteleuropea, quindi diffuso, per filiazioni, in Italia e in Sicilia. È indossato dai due Sarti al banco di lavoro, VIII decennio del XV secolo, affresco d’ignoto presso il Castello di Issogne (Valle d’Aosta); al volgere del secolo da Baldassar Castiglione in un celebre ritratto di Raffaello Sanzio del 1506-1510 (Parigi, Louvre); ampio e svasato calza la testa di un gentiluomo in Germania (Fig. 14); in Sicilia è tra i lancieri della Cattura di Cristo di Nicolò da Pettineo, 1514, affresco trasportato su tela, Termini Imerese (PA), Museo Civico; sobriamente corona la testa di un mago nell’Adorazione, pala centrale del Trittico del Cancelliere (tavola, Palermo, Museo Diocesano); al pari, del sovrano e del maggiorente seduti nel registro destro della Disputa di San Tommaso (tavola, Palermo, Galleria Interdisciplinare Regionale della Sicilia), entrambe opere attribuite a Mario da Laurito, databili al terzo-quarto decennio del XVI secolo 53. Sulla sua falda s’appuntavano differenti vezzi: una punta di freccia, una penna d’uccello, un fiore, un rametto fiorito, una vasta gamma di gioielli sovente originali, riadattate antiquitates o veri e propri rifacimenti archeologizzanti.

Tra le sculture in marmo, si segnala un simil caso nella lastra tombale di Pietro Antonio Guerreri, morto il 10 aprile del 1521, opera di Antonello Gagini conservata presso la Galleria Interdisciplinare Regionale della Sicilia, Palermo. Si tratta di un marmo che ci restituisce nella sua completezza il probabile vestimento di tutti i casi precedenti (Fig. 15), che sulle gambe indossavano certamente la calza braga da appuntare al farsetto mediante lacci e ai piedi calzavano le pianelle a becco di spatola tipiche della moda civile tra fine Quattro e inizi del Cinquecento (Fig. 16) 54. La stessa che è prescritta allo scultore Domenico di Pellegrino il 30 dicembre 1508, da Gaspare de Aliberto da Nicosia per la scultura del monumento funebre per il defunto Federico Catanese, da realizzarsi alla stessa maniera di quello eretto alla memoria del Magnifico don Pietro di Bononia, giacente presso la Chiesa e Convento di San Francesco d’Assisi in Palermo: «… dictus magister Dominicus teneatur sculpire bene et magistraliter figuram condam no. Friderici Cathanisi cum cappello in capite et libro in manibus et planellis in pedibus, …» 55.

Nell’abbigliamento femminile lo iato tra una prima cifra rinascimentale (non esente ancora da suggestioni tardo gotiche) e una moda pienamente aggiornata alla maniera rinascimentale italiana può essere colto in due esempi fondamentali: il vestimento funebre di Cecilia Aprile (supra) e la gentildonna orante sul registro in alto a destra del San Giorgio che abbatte il drago.

La giovane Cecilia completa il suo corredo con una veste sottana stretta nel busto, con un ampio taglio dello scollo che dobbiamo presumere quadrato; una seconda veste soprana aperta a V dalla spalla alla vita, allacciata sul busto e cinta a un punto leggermente rialzato verso il seno; le maniche sono ampie e cadenti, la gonna è poco sotto la caviglia, con quattro cerchiature e frangiata al fondo. Completa l’abito una sopravveste con ampie maniche rivoltate 56, aperta sul davanti, con taglio stondato al fondo e strascicante, con una frangia parapolvere sulla parte posteriore. Sui piedi coperti dalla calza è indossata una pianella femminile che possiamo immaginare aperta sul tacco come sulla punta. Cecilia porta con sé nella tomba un pendente da petto a losanga, con una pietra centrale tagliata a punta e quattro gemme (perle?) angolari (Figg. 1718). Il tutto ci restituisce un’immagine non discosta da altri ritratti femminili del tardo Quattrocento italiano, non ultimo il Ritratto di Giovanna Tornabuoni di Domenico Ghirlandaio (1488, tempera su tavola, Madrid, Museo Tyssen Bornemisza).

La gentildonna orante del San Giorgio di Antonello Gagini è invece una signora perfettamente aggiornata alle novità cortesi italiane dei due decenni precedenti, sebbene ci si presenti in un’attitudine più intima e confidenziale (Fig. 19). Difatti rinuncia alla seconda veste e ad altre forme di paludamento e si fa ritrarre con una semplice veste sottana sotto cui campeggia un’ampia camicia. Secondo una consuetudine tardo medievale e rinascimentale le maniche sono staccabili, e nel linguaggio sartoriale di allora questo significa che esse venivano sagomate ampiamente (anche con l’uso di leggere infustiture tra drappo e fodera), con un profondo taglio inferiore dal polso al gomito, fittamente allacciato o abbottonato, non senza che la camicia vi sbuffi con eleganza. Fuor dalla nozione di ritardo culturale dobbiamo entrare nell’idea e ottica dei modi sartoriali eleganti europei, accettando come la varietà di fogge, rimandi, citazioni fosse ormai parte di un sistema estremamente complesso, libero e “liberale”. Voglio dire che nel Quattrocento cortese s’è già dato corso a forme di classicismo le più disparate che non guardano solo alle antichità greche e romane, ma s’intridono di particolari attenzioni per la stagione gotica e tardo gotica sviluppando, in conclusione, una cifra eclettica che verrà a ripetersi per ondate successive in tutto il “Rinascimento lungo” europeo, fino a esiti risorgimentali e neogotici. Pertanto, le maniche fittamente abbottonate nella loro parte inferiore sarebbero la diretta conseguenza di certe tuniche interior nel Trecento, nelle diverse attitudini ora del “brial”, ora della “cipriana” 57, così come il trattamento maschile del farsetto imponeva: fittamente abbottonato dal polso al gomito. Il punto vita, che qui è coperto dalle braccia oranti, è da immaginare sotto il seno; uno stilema che troviamo ripetuto in ogni ritratto italiano femminile e maschile degli anni precedenti. Mentre dalla Spagna giungevano i primi esempi di verdugado 58 che dalla seconda metà del Quattrocento cerchiavano e irrigidivano la gonna ampliandone la mostra in una forma a campana 59, la moda italiana reagiva continuando a vestire la donna in forme sciolte e senza sottostrutture, come è anche il caso della nostra.

L’uomo d’armi

La città, dicevamo, pullula di “heroi”, la fortezza virile e marziale di molta letteratura e iconografia ce lo conferma. Esse sono da considerare, fuori dalla stretta contingenza del campo di battaglia, parte integrante della vita pubblica e onorifica di ogni cittadino/soldato/gentiluomo. Su tale saldissimo asse muove oggi la critica nel motivare le ragioni del transito dell’armatura verso un carattere onorifico-magnifico-spettacolare al volgere primo Rinascimento europeo, quando la corazza non è più strategicamente importante per le sorti del cavaliere in battaglia:

«In questa lunga congiuntura di profonde mutazioni strategiche e tattiche, l’armatura diventa ben presto, già a fine Quattrocento, il luogo più appariscente dell’irreversibile crisi del cavaliere e dell’ordine della cavalleria: non solo è troppo costosa da acquistare e da mantenere, ma soprattutto si rivela superflua, ingombrante, pesante, pericolosa, sui campi di battaglia spazzati dalle armi da fuoco di ogni tipo, dove ormai sono decisive le picche dei fanti. Perché possa sopravvivere (ma solo per poco), l’armatura è sottoposta ad una profonda riconversione funzionale: non più da combattimento, bensì da parata; armatura cerimoniale, armatura da torneo e da giostra. E diventa un oggetto d’arte, un bene di lusso, per pochi grandi ricchi signori, assolutamente esclusivo e distintivo. … . Uno strumento di rappresentazione dell’identità del suo titolare esclusivo, da indossare ed esibire solo in circostanze eccezionali di forte impatto comunicativo, nel nuovo cerimoniale del potere.»  60.

«And armouries were fashion accessories in themselves: those in the princely palaces in Madrid, Dresden, Prague, Paris and London served not only as storehouses ready for war, but as showcases designed to fill visiting dignitaries with wonder. They were the treasure houses of powerful families, visible symbols of their authority and memorials to the heroic pasts» 61.

Tale adeguamento funzionale implica la piena considerazione dell’armatura come abito, da incardinare, pertanto, nel corpo della società civile a paradigma delle mode urbane maschili e femminili.

Portiamo dei casi. Tra le circostanze eccezionali della vita di un gentiluomo va annoverata la morte e i suoi complessi cerimoniali; nel campo semantico della scultura funebre monumentale si eserciteranno la nemesi e l’exemplum per i posteri. Per tale complesso di ragioni il linguaggio della moda sovente è commisto di elementi civili e militari al contempo e l’armatura, ancorché deposta, determina un thopos iconografico ricorrente: sul sembiante efebico ed elegante di Antonino Speciale, ad esempio, lo scultore e la famiglia committente appongono le insegne dell’onore e delle armi, facendo intendere che con la veste e sopravveste il giovane Cavaliere indossi la cotta maglia; sopra di essa, in tutto o in parte, la corazza di cui sono visibili: la copertura delle braccia con piastre d’antibraccio e manopole; la copertura delle gambe con cosciali, ginocchietti, stincaletti e schiniere (Fig. 20); le scarpe segmentate, anch’esse parte dell’armatura.

Al ricordo di una vita onorifica aspira parimenti Maria de Avila nel commissionare al messinese Antonello Freri il monumento funebre del suo consorte, viceré Ferdonando de Acuna, in carica dal 1488 al 1494, anno della sua morte. Nel suo sembiante s’incardina una chiave di lettura che eleva lui e la sua famiglia a un preciso rango umanistico e cortese, tradotto in epigrafe con un «… ANIMO REGIUS, AC VIRTUTUM OMNIUM CUMULUS LITTERARUM CULTOR, ET ARMIS STRENUUS» 62. Tale livello ci pare maggiormente leggibile nell’abbigliamento e nell’acconciatura che gli vengon dati. Imberbe, con un taglio di capelli in voga per allora, interamente coperto d’armi in una corazza squamata, egli se ne sta orante a mani giunte verso l’altare. Solo la cottardita ingentilisce il tratto marziale di quel magnifico involucro, declinando dal suo originario ruolo araldico e di copertura dell’acciaio verso il lusso e la voluttà del tessuto in modo non discosto da altri esempi italiani del periodo 63. Qui si dipana un disegno medio a cancellata con andamento “a griccia” che nell’ogiva riproduce un fiore stilizzato (Fig. 21); pattern che nella struttura riecheggia alcuni drappi operati o velluti di seta tagliati in Spagna come in Italia nel XV secolo 64. La magnificenza principesca dei de Acuna-de Avila d’altro canto è rinomata. La morte di Don Ferdinando, i suoi atti testamentari, l’ampio lascito di beni che ne derivò, istituiscono con grande magnanimità la Cappella di Sant’Agata nella Chiesa Cattedrale di Catania 65; e anche se non è possibile stabilire un nesso diretto tra le vesti del defunto e la ricchissima dotazione di tessuti confezionati in paramento che lui e sua moglie predisposero per l’occasione, non è difficile comprenderne l’intima relazione in termini di gusto.

Un medesimo accento viene posto da Antonello Freri, Giovanni Battista Mazzolo e aiuti, sul Monumento funebre dell’ammiraglio Angelo Balsamo 66, L’ammiraglio, barone di San Basilio, console della città di Messina dal 1499 al 1500, è descritto da Mauceri “in assetto di guerra” 67; preferiamo pensare la sua divisa nel più ampio retaggio delle insegne aristocratiche cortesi, memore sì di un assetto bellico, ma emblematica del maggiorente metropolitano, mediata verso la lingua della moda civile per il tramite di una seconda cottardita, ancora una volta di seta operata come nel caso catanese, ma “incannucciata” (Fig. 22). E se il paggio del viceré de Acuna vive dissimulato dietro uno ampio scudo da parata, quello di Angelo Balsamo ci appare in tutta la sua significanza italiana e cortigiana al contempo 68.

Più tardi, sempre a Messina, l’eredità iconografica di maggiorente della città è raccolta da Visconte Cicala (1504-1564), ritratto da Andrea Calamecca in un elegante busto marmoreo. Il condottiero, mercante e corsaro 69, è raffigurato in una fiera corazza con spallacci a testa di leone, in paludamento 70, con le insegne della croce dell’Ordine militare di San Giacomo della Spada (come fu per il defunto Giovanni Cardinas un cinquantennio prima, nel 1516) 71 in una grossa catena a doppia maglia, rimarcata di conchiglie emblematiche del santo (Fig. 23).

Pienamente marziale, lui si in assetto da guerra, è invece il sembiante del barone Antonio La Rocca nella versione fornitaci da Domenico Calamecca 72. Raggiunto il meritato sosiego egli rimane abbracciato alla celata in una mano e al libro d’ore nell’altra. Poggia la testa sul suo elmo affinché lo protegga anche dopo la dipartita, immaginata, ci piace pensare, a dorso di cavallo e nell’Onore delle armi poiché vinto dalla sola morte dopo tanto periglio in vita. Il petto della corazza è aggiornato alla balistica del Cinquecento europeo, “alla moderna” dunque: sfuggente ai lati per meglio scalfire i proiettili e con puntale rivolto verso le parti molli del busto (Fig. 24). Si tratta di una soluzione che modifica sostanzialmente gli apparati difensivi della città così come quelli del corpo di un soldato, e siccome il dialogo tra moda militare e civile, tra moda maschile e muliebre non verrà mai meno, anche in questo caso l’effetto delle modifiche architettoniche nell’urbe e metallurgiche nell’armatura si risentono anche nella moda che dalla seconda metà del secolo punterà il busto e le vesti, con egual piglio marziale e a maggior difesa del decorum femminile, verso il basso come nell’esemplare del Museo Stibbert (Fig. 25).

Infine il popolo

L’Arco con storie di San Ranieri, realizzato dal comasco Gabriele di Battista e aiuti nel 1503-1505 in San Francesco d’Assisi a Palermo, presenta una scena di popolo che facilita la comprensione di alcuni aspetti del suo guardaroba, essenziale e funzionale al contempo. Vi è narrato l’episodio di una guarigione miracolosa forse riconducibile al caso di un giovane infermo della Pieve d’Arena presso Pisa, il quale: «Nel tempo che morì San Ranieri fu portato dall’altrui ajuto al luogo del di lui sepolcro, e dopo che era stato quivi fino alla sera, supplicando San Ranieri gli si raddrizzarono i piedi» 73. Al capezzale del santo, due coniugi in completo di doppia tunica recano sulle braccia il figlio infermo ed esamine; entrambi calzano una cuffia di stoffa, quella della moglie con soggolo (Fig. 26). Alla scena concorrono anche due questuanti pressoché nudi, coperti solo dalle interulae o mutande (Fig. 27). Il tenore della scena è conforme all’agiografia del santo, che in vita fu prodigo di attenzioni per il popolo e per i più umili. Vieppiù è conforme ad altre rappresentazioni della biancheria intima nell’iconografia europea tardo medievale e del primo Rinascimento, come accade di vedere tra la gente che si bagna alla Fonte dell’eterna giovinezza del Maestro della Manta, 1410-1420, affresco, Castello di La Manta, Cuneo; oppure nella scena di vestizione dei pellegrini affrescata da Domenico di Bartolo nel 1440-1444 per la Sala del Pellegrinaio in Siena, Ospedale di Santa Maria della Scala.

Conclusioni

In un campo d’indagine relativamente nuovo agli studi storico artistici, spero di aver fornito alcuni interessanti spunti di riflessione che contribuiscano a staccare la scultura rinascimentale siciliana dal sottofondo ieratico in cui sovente è posta, rendendola più vibratile e prossima alla materia del suo tempo. Non voglio con questo portarmi agli eccessi; so benissimo che l’artista percorre spesso la via di copie, modelli e convenzioni in pratiche di bottega consolidate, ma so anche che egli è immerso nella società in cui vive e che da essa non può eccettuarsi del tutto; al contrario, suggerisco di pensare che lo spunto per l’opera talvolta gli venga da casi e episodi concreti della vita quotidiana, vita di cui l’abito e le sue forme modali sono parte essenziale, talvolta ineludibile per committenti e scultori.

* Il testo qui proposto è stato licenziato nel 2017. Esso faceva parte di un progetto di studi e ricerche sui marmi in Sicilia dal titolo provvisorio: Per la scultura lapidea del Rinascimento in Sicilia: 1460 -1580 circa, a cura di Salvatore Rizzo e Paolo Rosso, sotto l’egida della Soprintendenza ai BB. CC. di Caltanissetta, che per varie ragioni non è stato mai pubblicato.

  1. E. Birbari, Dress in italian painting. 1460-1500, Londra 1975, pp. 3-5.[]
  2. M. Accascina, Inediti di scultura del Rinascimento in Sicilia, in, «Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz», 14, 3, 1969-1970 (1970),, pp. 251-252. Un secondo efficace affresco – circoscritto alle committenze madonite e al prosieguo della fortuna “gaginiana” in Sicilia, è fornito da Vincenzo Abbate in V. Abbate, Contesti e fortuna della “Bottega” Gaginiana nelle Madonie, in, Itinerario Gaginiano, Gangi (Pa) 2011, pp. 28-31. Per la specifica natura del contributo proposto, non ritengo opportuno dare conto dell’ampia letteratura specialistica sulla scultura in marmo nella Sicilia del Rinascimento ma solo delle fonti più pertinenti alla sua economia.[]
  3. Intendendo con l’espressione: delle campagne militari, delle novità balistiche e dell’arte dei corazzai che si affermarono dalla seconda metà del Quattrocento, oppure, a distanza di più di un secolo, delle suggestioni “turchesche” conseguenti l’impresa di Lepanto (1571).[]
  4. In tal senso, credo la Sicilia partecipi di un milieu simile ai territori spagnoli del Quattrocento, quando «En Castilla se impusieron una serie de creaciones indumentarias de gran originalidad en las que convergían también influencias francesas e italianas y, destacadamente, musulmanas debido al permanente contacto que los territorios de la Corona y sus centros comerciales mantuvieros desde el siglo XIII con el reino nazarí de Granada y las rutas orientales.». M. Martínez, La Creación de una moda propria en la España de los reyes catolicos, in, «Aragón en la Edad Media», 19, 2006, p. 346. Se di semplificazione si può allora parlare (Cantelli 1988, p. 257) essa andrà ricercata nel carattere precipuo della moda italiana nel secondo Quattrocento – che nel progressivo fiorire della Maniera segnò, è vero, una maggiore asciuttezza di stile rispetto alla stagione gotica internazionale – piuttosto che nel presunto carattere provinciale della civiltà siciliana dall’età alfonsina in avanti.[]
  5. V. Genovese, Colore, brillio e lustro. I Gagini e la percezione delle imagines depictae, in «Ricerche di Storia dell’arte», 90, 2006; V. Abbate, Contesti e fortuna…, 2011, pp. 37-38.[]
  6. Per un accostamento con le mode di fine secolo entro i confini delle corti italiane del centro-nord, cfr.: Andrea Mantegna, Camera degli sposi, part. della corte, 1465-1474, affresco, Mantova, Castel San Giorgio; Ercole de’ Roberti, Altare Griffoni, predella, 1473, tavola, Roma, Pinacoteca Vaticana; IDEM, Ritratto di Giovanni II Bentivoglio, 1480 ca., tavola, Washington, National Gallery.[]
  7. C. Damianaki, I Busti femminili di Francesco Laurana tra realtà e finzione, Sommacampagna (VR) 2008, pp. 123-124, Fig. 72.[]
  8. Cfr. Pisanello, Ritratto di Lucia d’Este (?), 1437 ca., tavola, Parigi, Louvre; Piero del Pollaiolo, Ritratto muliebre, 1465, tempera e olio su tavola, Berlino, Gemaldegalerie.[]
  9. Tratto che s’affermò anche in Castiglia da modelli borgognoni, tanto che «Los nuevos cánones de la moda cuatrocentista se impusieron sin distinción de sexo en la España de los Reys Católicos: ombre y mujeres trataron de mostrarse bellos, originales y distinguidos, aunque los excesos de las damas fueron más criticados y no porque fuesen mayores si no por la transgresión y cierta liberación que el hecho en sí mismo representabas para los ojos y las mentes masculinas de la Cristiandad occidental.». M. Martínez, La Creación de una moda…, 2006, p. 349.[]
  10. Sull’argomento e sulla bibliografia precedente v. V.U. Vicari, Moda, Buone maniere ed eleganza nel Secolo d’oro. Con il teatro galante di alcuni ritratti notevoli di Sicilia, in, Mode società e cultura nella Sicilia del Secolo d’oro, a cura di L. Michelangeli, V.U. Vicari, Milano 2013, pp. 41-78.[]
  11. C. Damianaki, I busti femminili…, 2008, Cap. II.[]
  12. G. Di Marzo, Antonello Gagini e la sua scuola. Scultura e architettura in Sicilia nel sedicesimo secolo, Palermo 2001, prima ed., Palermo 1858-1964., pp. 64-66, che riferisce il commento critico dell’Abate Melchiorre Galeotti (1824-1869), il quale ne scrive prima di lui. M. Galeotti, Preliminari alla storia di Antonio Gagini, scultore siciliano del secolo XVI e della sua scuola, Palermo 1860, pp. 35-36.[]
  13. ASPa, Notai defunti, Rinaldo Liuzzo, st., I, vol. 1847, c.s.n., (1449-1500/1501); in G. Mendola, Note a margine per una storia della scultura madonita, in Itinerario gaginiano, Gangi (Pa) 2011, pp. 52-53, nn. 15-16.[]
  14. ASMe, Notai defunti, Matteo d’Angelo, s.i.a.; in, G. Di Marzo, Antonello Gagini e la sua scuola…, 1880, 1883, II, p. 58.[]
  15. Notaio Nicola Valluni, Siracusa; in, Agnello 1962, che non ne riferisce collocazione e segnatura.[]
  16. ASPa, Notai defunti, Matteo Fallera, n. 1768, ff. 574-575; in G. Di Marzo, Antonello Gagini e la sua scuola…, 1880, 1883, II, pp. 12-13.[]
  17. ASPa, Notai defunti, Gerardo La Rocca, n. 2504, f. 311 e sg.; ibd., p. 34.[]
  18. ASTp, Notai defunti, Giacomo Giariferga (o Gianfezza); ibd., p. 107.[]
  19. ASPa, Notai defunti, Giovanni Francesco La Panittera, vol. 2712, f. 410r; I. Mancino, Antonello Gagini fra Sicilia e Malta. Il restauro delle statue della Cattedrale di Palermo, Caltanissetta 2007, pp. 63-64.[]
  20. AS Chiesa San Nicola, Randazzo, Libro rosso; G. Di Marzo, Antonello Gagini e la sua scuola…, 1880, 1883, II, p. 110. L’autore riporta il documento da M. Galeotti, Preliminari alla storia…, Doc. III, pp. 138-140.[]
  21. ASPa, Notai defunti, Matteo Fallèra, n. 1778; ibd., pp. 114-115.[]
  22. ASPa, Notai defunti, Gerardo La Rocca, n. 2514, ff. 352-53; ibidem., p. 127.[]
  23. ASPa, Notai defunti, Geronimo Corraccino, n. 3481; ibd., pp. 131-132.[]
  24. ASPa, Notai defunti, Giacomo Scavuzzo, n. 3619; ibd., p. 134.[]
  25. ASPa, Notai defunti, Francesco Cavarretta, n. 1787, ff. 585-586; ibd., p. 180.[]
  26. ASPa, Notai defunti, Salvatore Vulcano, n. 5069, f. 499; ibd., p. 182.[]
  27. Archivio (?) di Alcamo, Notai defunti, Bastardelli, Pietro Scannariato, 1545, f. 1044 sgg.; ibidem, p. 225.[]
  28. ASPa, Notai defunti, Bastardelli, Fabio Zafferana, n. 5631, f. 73 sgg.; ibidem. p. 277.[]
  29. ASPa, Notai defunti, Cusimano Guagliardo, n. 4168, cc. 1201r-1202r; in G. Travagliato, Sulla Scultura in Sicilia nei secoli XVI e XVII. Non solo i Gagini: regesti documentari inediti ad integrazione degli studi di Gioacchino Di Marzo, in Gioacchino Di Marzo e la critica d’arte nell’Ottocento in Italia, Atti del Convegno, (Palermo, 15-17 aprile 2003), a cura di S. La Barbera, Bagheria (PA) 2004, p. 306.[]
  30. Archivio (?) di Alcamo, Notai defunti, Andreotta Frangione; in, G. Di Marzo, Antonello Gagini e la sua scuola…, 1880, 1883, II, p. 259.[]
  31. Museo Interdisciplinare Messina, Inventario Accascina, 1950-1954, n. 347: «Maestro del secolo XV. Lastra marmorea tombale con rilievo di testa barbuta con turbante»; Inventario nuovo, n. 347: «Iscrizioni: SEBASTIANO […] I Λ (a penna nel registro). IO […] QD Λ (a penna nel registro) FI / GIO : PIETRO 14 C …». L’opera manca nel Vecchio inventario, 2 voll., 29 maggio 1929. Correggo in tal modo un errore in V.U. Vicari, Fonti sulla storia dell’abbigliamento e dell’ornamento d’uso civile in Sicilia tra XIV e XV secolo, in, Dalla testa ai piedi. Costume e moda in età gotica, Atti del Convegno di studi, (Trento, 7-8 ottobre 2002), a cura di L. Dal Prà, P. Peri, Trento 2006, p. 537, Fig. 16. Oltre al fiero messinese, si segnalano almeno due esempi di turbante stricto sensu: nel Maestro di Santa Maria e bottega, Retablo di San Lorenzo, prima metà del XV secolo, tempera su tavola, Siracusa, Museo Regionale Palazzo Bellomo; particolare con i due carnefici del Martirio; e nell’ignota Sant’Agata e storie della sua vita, XV secolo, tavola, Castroreale (ME), Chiesa di Sant’Agata.[]
  32. C. Bernis, Indumentaria española en tiempos de Carlos V, Madrid 1962, p. 107, ad vocem.[]
  33. Forma di copricapo a “mazzocco”, assimilabile pertanto agli esempi qui riferiti, diffusa in Spagna nel Quattrocento. M. Rey Cabezudo, Moda en piedra en el siglo XV. Análisis iconográfico del las laudas gallegas con «tocado de rollo», in, «Cuadernos de Estudios Gallegos», LXI, 127, 2014, pp. 55-56.[]
  34. P. Coniglio, La Scultura del Rinascimento nella Sicilia nord-orientale, tesi di Dottorato, Università degli studi “Federico II”, Napoli, Dipartimento di Studi umanistici, Scuola di dottorato in Scienze archeologiche e Storico-artistiche, Indirizzo Discipline storico-artistiche dell’Italia meridionale, XXV ciclo, a.a. 2012-2013, pp. 99-102. N. Lo Castro, Opere di Giovanbattista Mazzolo fra Sicilia e Malta. Alcune nuove attribuzioni, in, «PaleoKastro», N.S., V, 6, dicembre 2015 – febbraio 2016, P. 10. Una scena consimile illustra il basamento di una medesima santa del medesimo autore oggi al Museo Interdisciplinare Messina, 1520 ca, marmo policromo, dalla Chiesa di Sant’Antonio da Padova, Santa Lucia del Mela (ME). Caglioti 2003, p. 47, Fig. 9; p. 49.[]
  35. F. Rossi, Antonello (and Domenico) Gagini at Pietraperzia, in, «The Burlington Magazine», 157, 1352, Novembre, 2015, pp. 744-745, Fig. 2.[]
  36. Francesco Laurana, Busto di giovane donna, 1469-1470, marmo alabastrino, dalla Chiesa e Convento benedettino di Santa Maria del Bosco, Calatamauro, Giuliana (PA), poi, Palermo, Museo Nazionale, quindi, Palermo, Galleria Interdisciplinare Regionale della Sicilia. L’identità e la datazione dell’opera sono ancora oggi materia assai controversa. Una recente ipotesi è fornita da C. Damianaki, I Busti femminili…, 2008, III.1, pp. 117-124, a cui si rimanda anche per la sua fortuna critica.[]
  37. R. Delogu, La Galleria Nazionale della Sicilia, Roma 1962, pp. 17-18, fa discendere la datazione dell’opera da questioni di moda, quando afferma: «… in ogni caso mai tanto da scavalcare gli inizi del nono decennio del secolo che è l’epoca dalla quale prese a diffondersi l’usanza di raccogliere i capelli entro una reticella». Affermazione che alla luce del ragionamento qui proposto non mi pare probante.[]
  38. L. Sarullo, Dizionario degli Artisti siciliani, 1994, III, p. 86; ibidem, p. 178.[]
  39. G. Di Marzo, Antonello Gagini e la sua scuola…, 1880, 1883, II, p. 26, n. 1.[]
  40. E. Bianchi, Dizionario internazionale dei tessuti, Como 1999, p. 5, ad vocem Albernozzo; http://www.treccani.it/enciclopedia/burnus_(Enciclopedia-Italiana)/. Etimo che, tuttavia, sembrerebbe ricondurre al greco βίρρος e al latino burrus/birros, quando il termine connotava un semplice mantello scapolare di lana grezza.[]
  41. Questa ipotesi di lavoro induce a espungere dal presente catalogo alcuni importantissimi esempi di scultura messinese, perché evidente ci pare il loro carattere di antiquitas meramente ideale. Mi riferisco al coperchio di sarcofago d’ignoto soldato, attribuito a Giovan Angelo Montorsoli e bottega, metà del XVI secolo, marmo, Messina, Museo Interdisciplinare (Migliorato 2015, pp. 97-98, Figg. 69-70); ovvero al Monumento funebre di Andreotta Staiti, di nuovo del Montorsoli, 1553, marmo, Messina, ivi, dalla Chiesa di Santa Maria di Gesù, Messina.[]
  42. A. Migliorato, Il Rilievo di Elpide nel Museo Regionale di Messina: nuove proposte di lettura, in, «Archivio Storico Messinese», 93, pp. 411-425.[]
  43. A. Migliorato, Una Maniera molto graziosa. Ricerche sulla scultura del cinquecento nella Sicilia orientale e in Calabria, Messina 2010, pp. 177-178; p. 179, Fig. 53.[]
  44. Sandro Botticelli, La bella Simonetta, 1480-1485, tempera su tavola, Tokyo, Marubeni Art Collection (una seconda opera che la ricalca è conservata a Londra, National Gallery); IDEM, Ritratto di giovane donna (Simonetta Vespucci?), 1476-1480, tempera su tavola, Berlino, Staatliche Museen, Preussischer Kulturbesitz, Gemäldegalerie.[]
  45. A. Chastel, Arte e Umanesimo a Firenze al tempo di Lorenzo il Magnifico, Torino 1964., pp. 306-307. P. Francastel, La Festa mitologica nel Quattrocento. Espressione letteraria e visualizzazione plastica, in, IDEM, Guardare il teatro, Bologna 1987, pp. 87-140. Per un’iconologia di Simonetta Vespucci quale allegoria femminile nel più ampio programma poetico-letterario e spettacolare mediceo di quegli anni, cfr. P. Ventrone, Simonetta Vespucci e le metamorfosi dell’immagine della donna nella Firenze dei primi Medici, in, Lazzi Giovanna, Ventrone Paola, La Nascita della Venere fiorentina, Firenze, 2007, pp. 29-49; J.R. Allan, Simonetta Cattaneo Vespucci: beauty, politics, literature and art in early Renaissance Florence, tesi di Degree of Doctor in Philosophy, Department of Modern Languages, School of Languages, Cultures, Art History and Music, College of Arts and Law, University of Birmingham, September 2014.[]
  46. L. Sarullo, Dizionario…, 1994, III, pp. 234-236, ad vocem. Sul contributo fiorentino di Montorsoli all’urbanistica e all’architettura messinese del secondo Cinquecento, v. Aricò 2013.[]
  47. A. Migliorato, L’Assunta di Giovan Angelo Montorsoli. Un frammento ritrovato, in, «Archivio Storico Messinese», 91-92, 2011, pp. 439-450.[]
  48. M. Accascina, Inediti di scultura del Rinascimento in Sicilia, in, «Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz», 14, 3, 1969-1970 (1970), pp. 268-270, figg. 15-16.[]
  49. In una simile tipologia di sopravveste, nello stesso torno di anni (1468), bisogna immaginare vestito il barone Pietro Speciale, allora Pretore della capitale. Era questi tra i primi della città di Palermo e di Sicilia: figlio di Nicolò Speciale (che era stato viceré di Sicilia nel 1423-1429, nel 1429-1430 con Guglielmo Moncada e nel 1430-1432 con questi e con Giovanni Ventimiglia), valente stratega in età giovanile, Maestro razionale del Regno nel 1449, Pretore capitolino nel 1469 e nuovamente Maestro razionale nel 1470. Accomuna le due figure di maggiorenti anche il copricapo: una berretta ricorrente nell’abbilgiamento maschile dell’epoca, che in Sicilia andava sotto il nome di coppola (dalla forma a cupola). v. Domenico Gagini, Busto di Petro Speciale, 1468 (iscr.), marmo, Palermo, Soprintendenza ai BB. CC. AA., Palazzo Ajutamicristo, da Palazzo Speciale-Raffadali.[]
  50. Modello che si ripete almeno in altri due monumenti: Bottega di Domenico Gagini, Monumento funebre di Giovanni Branciforte, 1471 (iscr.), marmo, Mazzarino (CL), Municipio, dalla Chiesa di Maria Santissima del Carmelo (M. Accascina, Inediti di scultura…, 1970, pp. 280-282, Fig. 32; H.W. Kruft, Domenico Gagini und seine werkstatt, Monaco di Baviera 1972, cat. 34); Giovannello Gagini e Andrea Mancino, Monumento funebre di Gaspare De Marinis, 1492, marmo, Agrigento, Chiesa Cattedrale (F. Meli, Francesco Laurana o Domenico Gagini? Documenti e qualità stilistiche sono esclusivamente per Gagini, in, «Nuovi Quaderni del Meridione», III, 10, 1965, p. 313, Tav.).[]
  51. Come per altri casi di Laurana in Sicilia, quest’opera è oggetto di notevoli controversie per cui, secondo Bernini (D. Bernini, Francesco Laurana. 1467-1471, in, «Bollettino d’arte», LI, V, 3-4, 1966, pp. 155-162) essa andrebbe datata non oltre il 1468-1469, periodo che mi pare precoce se poniamo come terminus ante quem le considerazioni di moda qui proposte; sul più recente suo restauro v. anche M.L. Amadori, Il Restauro della lastra tombale detta del “giovane cavaliere” di Francesco Laurana, in, Scienza e patrimonio culturale nel Mediterraneo. Diagnostica e conservazione esperienze e proposte per una Carta del Rischio, Atti del III Convegno internazionale di studi La Materia e i segni della storia, (Palermo, 18-21 ottobre 2007), (I Quaderni di Palazzo Montalbo), 15, Palermo 2007, pp. 475-481.[]
  52. F. Rossi, Antonello (and Domenico) Gagini…, 2015.[]
  53. T. Pugliatti, Pittura del Cinquecento in Sicilia. La Sicilia occidentale, Napoli 1998, pp. 146-147, Tavv. 23, 24.[]
  54. Supra, n. 19.[]
  55. Supra, n. 16. In modo omologo veste Simone III Ventimiglia, barone di Sperlinga e Ciminna, donatore orante al piede sinistro dell’ancona di Geraci Siculo (Pa), Chiesa di San Bartolomeo, attribuita alla Bottega di Antonello Gagini (Vincenzo, Fazio e Giacomo suoi figli), metà del XVI secolo, marmo, Itinerario 2011, scheda (S. Anselmo), p. 107, Figg. a pp. 62, 106.[]
  56. Il trattamento sartoriale delle maniche è da considerarsi tra i retaggi tardo gotici che nel secondo Quattrocento europeo stenta ancora scomparire, a dimostrazione della grande fortuna che esso ebbe tra le aristocrazie continentali e nella pratica dei sarti cortesi e metropolitani di allora.[]
  57. Per la Sicilia cfr. Maestro del falconiere (attr.), Fanciulla, 1377-1380, legno dipinto, Palermo, Palazzo Steri, Sala magna, soffitto ligneo; Collaboratore del Maestro del Falconiere (attr.), Dama col vessillo chiaromontano, 1377-1380, legno dipinto, Palermo, ivi.[]
  58. C. Bernis, Indumentaria española…, 1962, p. 108, ad vocem. Il termine deriva da verdugos, documentato per la prima volta nel 1477: «Aros de una materia algo rigida que se cosían en las faldas para armarlas y darles formas acampanada.» Ivi:, ad vocem. Per le ragioni morali che indussero all’uso dei verdugos e per la pedagogia femminile che ne derivò agli ambienti spagnoli cattolici della seconda metà del Quattrocento, v. M. Martínez, La Creación de una moda…, 2006.[]
  59. Cfr. Cerchia di Tomás Giner, Salomé con la cabeza del Bautista, episodio del Retablo de San Juan Bautista, 1465-1480, Erla (Saragozza), C. Sigüenza Pelarda, La Moda en el vestir en la pintura gótica aragonesa, Zaragoza 2000, p. 95, p. 135, Fig. 8. Cfr. anche, Pedro García de Benabarre, El festin de Herodes, 1470-1480, Barcellona, Museo Nacional de Arte de Cataluña.[]
  60. A. Quondam, Cavallo e Cavaliere, Roma 2003, pp. 80-82.[]
  61. A. Patterson, Fashion and armour in Renaissance Europe. Proud looks and brave attire, Londra 2009, p. 10. Per un’introduzione al valore simbolico dell’armatura nell’occidente antico, medievale e rinascimentale, cfr. Z. Żygulski Jr., Armour as a simbolic form, in, «Waffen und Kostümkunde», XXVI, 2, 1984, pp. 77-96; utili approfondimenti relativi alla sua maniera rinascimentale italiana sono in C. Springer, Armour and masculinity in the Italian renaissance, Toronto, Buffalo, London 2013, prima ed. Ingl., ivi 2010.[]
  62. E. Mauceri, Antonello Freri scultore messinese del Rinascimento, in, «Bollettino d’arte», II, 1, 1921, pp. 388-391. Encomio che viene rafforzato dal giudizio storico riferito in G. Di Blasi, Storia cronologica dei viceré, luogotenenti e presidenti del Regno di Sicilia, Palermo 1842, pp. Cap. XX, pp. 96-101, ad vocem.[]
  63. Cfr. Dosso Dossi (attr.), Ritratto di Ercole I d’Este (m. 1505), olio su tela, Modena, Galleria Estense.[]
  64. Manifattura spagnola-moresca, frammento, XV secolo, lampasso a fondo raso, disegno a cinque trame lanciate, legate in taffettà da un ordito di legatura, Lione, Musée Historique des Tissus, n. 31166; Manifattura italiana, serie di frammenti cuciti assieme, seconda metà del XV secolo, velluto tagliato a un corpo su fondo gros, detto “a inferriata”, Londra, Victoria & Albert Museum, nn. T 839, A 1919. D. Devoti, L’Arte del tessuto in Europa, Milano 1993, prima ed. It. Milano 1974, schede nn. 32, 81.[]
  65. V. Casagrandi, La Fondazione della monumentale Cappella di S. Agata, auspice Donna Maria d’Avila vedova del Vicerè Ferdinando d’Acuna e per opera dello scultore messinese Antonio De Freri, in, «Archivio Storico per la Sicilia Orientale», II Ser., III-IV, 1-3, 1927-1928, 1928, pp. 359-389. All’atto testamentario del de Acuna (1 dicembre 1494, redatto dal Notaio Paolo Cosentino il 6 luglio 1495), seguì subito un secondo atto di donazione al Capitolo della Cattedrale da parte di sua moglie Maria de Avila, consistente in 18 onze più 2 donate dalla stessa Maria, per l’istituzione della Cappella (o Beneficio) di Sant’Agata e in un ricco corredo di giogali per suo esercizio. Un secondo ricco corredo di paramenti fu donato dal Procuratore della stessa vedova, reverendo Alvaro Sarza. Entrambi davano continuità a una tradizione di donativi preesistente e successiva alla morte di Ferdinando de Acuna. Maria de Avila stessa, devotissima alla santa martire, il 21 novembre del 1494, «… aveva offerto alla Santa Protettrice della Città altra preziosa suppellettile, consistente in una Cappa di broccato in raso cremisi, Fasce operate in oro, Borsette in velluto cremisi e di broccato, in raso nero, due Tuniche di broccato in seta e velluto cremisi con frange bianche e rosse …», etc. (ibidem., p. 363). Di tutti i donativi nel 1928 non rimane più traccia. Nella sostanza si tratta di vestimenti e coperture liturgici già confezionati in parato all’atto delle donazioni. In essi campeggiano spessissimo l’arme dei due casati, a riprova che i manufatti furono commissionati in occasione dell’istituzione votiva, oppure provenienti dalla cappella privata dei coniugi.[]
  66. Restaurato da Lorella Pellegrino nel 1983-1984. E. Mauceri, Antonello Freri scultore…, 1921, pp. 385-398; M.L. Amadori, Il restauro della lastra tombale…, 2007; P. Coniglio, La scultua del Rinascimento…, 2012-2013, pp. 93-99, istradata alla presente attribuzione da F. Caglioti, Due opere di Giovanbattista Mazzolo…, 2003.[]
  67. E. Mauceri, Antonello Freri scultore…, 1921, p. 394.[]
  68. Alle varianze vestimentarie determinate dai due monumenti bisogna aggiungerne un’altra precedente, che in certo senso istruisce il modello iconografico introdotto e veicolato in Sicilia da Antonello Freri: il monumento funebre del padre di Ferdinando, Pedro de Acuna, Conte di Buendía (m. 1482), Chiesa di Santa Maria de l’Asunçion, Dueñas (Spagna). F. Caglioti, Due opere di Giovanbattista Mazzolo…, 2003, pp. 53-54. In ciascuno dei suddetti casi, a parità d’impianto, le scelte rappresentative della magnificenza familiare sono a mio avviso espressione della cultura, del gusto e della guardaroba privata del defunto e della sua cerchia, indice più che probabile di una prassi non condizionata da modelli scultorei ripetuti.[]
  69. A. Migliorato, Visconte Cicala, corsaro e imprenditore, in, «Karta», 1, 1, 2006, pp. 6-7. 2006. A. Migliorato, Una maniera molto graziosa…, 2010, pp. 249-252; p. 250, Fig. 22.[]
  70. Si ricorda che il paludamentum era un mantello militare clamidato e purpureo, che nelle consuetudini onorifiche romane si conferiva al sovrano o al generale vincitore e s’indossava in parata.[]
  71. Supra, n. 15.[]
  72. N. Aricò, Monumento funebre di Antonio La Rocca, in Un museo immaginario. Schede dedicate a Francesca Campagna Cicala, a cura di G. Barbera, Messina 2009, pp. 58-60. A. Migliorato, Una maniera molto graziosa…, 2010, pp. 227-229; p. 228, Fig. 2. P. Coniglio, La scultura del Rinascimento…, 2012-2013, pp. 189 e sgg.[]
  73. Vita di San Ranieri protettore della città e Diocesi di Pisa. Traduzione di un antico manoscritto del Canonico Benincasa fatta da Fra Giuseppe Maria Seminiatelli Religioso dell’Ordine di Santa Maria del Carmine, Pisa 1842, p. 409.[]