Anna Maria Pedrocchi

La chiesa del Gesù di Roma – Museo della sacrestia nuova: reliquie e reliquiari

ampedrocchi@gmail.com
DOI: 10.7431/RIV28022023

La capillare indagine sugli arredi sacri nelle chiese di Roma, da me condotta, ha portato, tra l’altro, alla luce la particolare situazione della chiesa del Gesù di Roma che, unica nel contesto degli edifici religiosi dell’Urbe, conserva centinaia di reliquie e numerosi reliquiari, databili tra XVI e XIX secolo, ai quali è stato dedicato un intero ambiente del <<Museo della sacrestia nuova>> 1. Chi scrive ha rinvenuto nel convento una rara documentazione riguardante le reliquie: Catalogo A delle reliquie di chiesa e sacrestia <<Serie Sanctorum quorum reliquiae in sacello B.M.V, vulgo della Strada, asservantur,ordine alphabetico digesta, anno 1829>>. I fogli sono così divisi: numero progressivo, nome del martire e/o del santo in ordine alfabetico, materia della reliquia, lettera di autorizzazione, tipologia del reliquiario, luogo attuale di ubicazione. Ad esempio << n.1, Jesus,Maria,Joseph, D.N.J.C/ ex lignis SS. Cruce et Spinae corona/ Petrus lambertus/ reliquiario argenteo […..] Inaurato formae ovatae/ in tabernaculum altaris>> 2 . Infine è citato il nome del cardinale che ha apposto l’autentica in cera lacca. Un altro foglio riporta il nome delle reliquie di santi estratte dalle catacombe di San Sebastiano f.l.m.  alcune delle quali <<legalmente donate al Rev. P. Michele Fernandez della Compagnia di Gesù della diocesi di Toledo, anno IV del pontificato di Sisto V (1589). Generale Acquaviva>> 3. Quindi i sacri resti furono acquisiti già sul finire del Cinquecento, essendo ancora in vita il cardinale Alessandro Farnese e il preposito generale Claudio Acquaviva (1581-1615), probabili committenti, nel clima post-tridentino di interesse per la riscoperta del Cristianesimo primitivo. Un lungo elenco riguarda poi le reliquie esistenti << in sacello B.M.V. della Strada>>, cioè nelle nicchie laterali della Cappella dedicata alla piccola chiesa preesistente, celate dietro le tavole dipinte che ornano le pareti laterali 4. Altre reliquie infine sono citate <<in sacrario>> e sugli altari delle altre cappelle della chiesa.

La Chiesa ha sempre venerato le reliquie dei martiri e dei santi, vere immagini di Cristo e modello per i credenti. Roma naturalmente aveva il suo tesoro nelle catacombe. Dal loro numero dipendeva l’importanza della chiesa che le custodiva. Molte reliquie erano “autentiche” non nel senso che fossero riconducibili al santo al quale si riferivano, ma   in quanto rappresentazione capace di suscitare la pietà 5.

La presenza al Gesù di innumerevoli reliquie spiega l’esistenza di tanti reliquiari realizzati per contenerle. Questa costante esigenza permette di conoscere le diverse tipologie, forme, modelli e stile dell’argenteria sacra romana di questo lungo periodo di cui i reliquiari sono l’esempio più evidente.

Veniamo ora ai preziosi reliquiari tuttora conservati. Il più antico, il Reliquiario della Sacra Spina, si data all’ultimo quarto del XVI secolo. La grande piramide in cristallo di rocca contiene una spina della corona di Cristo, sormontata dal monogramma gesuitico <<IHS>> raggiato, a riprova che la committenza fu dei gesuiti.  (Figg. 12345) La piramide poggia su un plinto di base ornato da quattro placchette dipinte a olio su rame, con lumeggiature in oro, raffiguranti la Flagellazione, l’Ecce Homo, l’Andata al Calvario e la Crocifissione. L’ignoto pittore, esempio del Manierismo veneziano, va ricercato nell’ambito della corte farnesiana di Roma. Sia il modello dell’opera, derivato dall’Antico, che la semplicissima montatura in argento dorato, dovrebbero essere di mano di un argentiere attivo a Roma. Per la datazione esistono due termini ante quem: il primo riguarda un pagamento del 1578 ad Antonio Gentili da Faenza, argentiere e orefice, attivo dal 1561 al 1609, per un reliquiario in cristallo di monte, mentre il secondo è la ceralacca dell’autentica con lo stemma del cardinale Francesco Alciati (1565-1580). Siamo di fronte ad un oggetto di rara eleganza e sobrietà sempre elencato negli inventari ottocenteschi: <<D.N.J.C. ex corona spinae-pyramide crystallina>>.La scelta del cristallo di rocca non è casuale in quanto si riteneva derivato dall’acqua per la sua purezza e incorruttibilità, paragonandolo a Cristo e quindi adatto a contenere le reliquie della Passione. Alla simbologia del cristallo si deve aggiungere quella della forma piramidale, anch’essa riferita al Salvatore. Questo raffinatissimo oggetto l’avevo già pubblicato senza tuttavia riuscire a dare un nome al pittore che aveva realizzato le quattro placchette della base del reliquiario con <<Storie della Passione di Cristo>> 6.

Per quanto detto si deve quindi cercare l’autore tra i personaggi della corte del cardinale Alessandro Farnese: qui da decenni si trovava il famoso miniaturista Giulio Clovio (1498-1578) che sappiamo aver raccomandato nel 1570 << un giovane candiotto, allievo di Tiziano>>, al cardinale Farnese. La raccomandazione si riferisce naturalmente a Domenico Theotocopolus, giunto a Roma proprio in quell’anno. Qui sembra avesse aperto una bottega nella speranza di trovare buoni lavori. Purtroppo non ottenne alcuna commissione pubblica per cui dovette accontentarsi di lavori occasionali, di devozione privata. Già nel 1568 per il nobile padovano Tommaso Obizzi aveva dipinto un altarolo portatile, noto come “Trittico di Modena”2, che rivela grande affinità stilistica con le nostre placchette, tanto da indurci a proseguire su questa strada 7. Durante i circa sei anni romani, l’artista dimostra di aver acquisito un linguaggio ispirato al Manierismo romano, impostato però su un substrato veneziano, soprattutto da Tintoretto e dal tardo Tiziano, come le linee sinuose e allungate, l’uso del colore vivace l’impostazione verticale della composizione. Nonostante il giovane pittore non dimentica la tradizione pittorica bizantina delle icone, come dimostra ad esempio l’uso calligrafico delle dorature nei panneggi. Una arte particolarmente veneziana sì ma impregnata d dalle suggestioni provenienti dal vicino Oriente. Come si è visto, non sono poche le notizie che documentano il nostro reliquiario tanto da poter chiudere il cerchio restringendolo a pochi anni ed a pochi personaggi, tanto da sostenere un’attribuzione al giovane El Greco, durante i suoi anni romani.

In ambito farnesiano si possono datare anche tre reliquiari ad ostensorio in argento fuso e dorato, con gocce in cristallo di rocca sfaccettato. Nella sobria decorazione a sbalzo e cesello compare, sulla base, il <<giglio Farnese>>. Siamo di fronte ad un rarissimo esempio di argenteria romana manierista. La base ottagonale poggia su delfini ricurvi, il doppio nodo, ancora in cristallo di monte, sostiene la teca circolare ornata da una sobria cornice a piccole volute, intervallate da sfere di cristallo. I Reliquiari delle ss. Dorotea e Giuditta, la cui forma e stile ricordano la coeva argenteria medicea importata nell’Urbe da argentieri fiorentini.  Un confronto probante può farsi con la Croce reliquiario del Museo dell’Opera del Duomo di Firenze, di qualche anno successiva, opera dell’orafo di corte Cosimo Merlini. (Fig. 6) Alla stessa tipologia e allo stesso argentiere appartiene il Reliquiario di san Fabiano. Su base ottagona si sviluppano volute concavo convesse desinenti in teste di cherubi. Sul corpo si innesta la teca ovale con cornice a piccole volute ornate da sferette in cristallo di rocca sfaccettato. Il reliquiario contiene i resti di san Fabiano papa e martire (236-250 d.C.) che fu martirizzato sotto l’imperatore Decio. (Fig. 7) Il corpo si conserva nelle catacombe di san Callisto mentre la testa nella settecentesca cappella Albani in San Sebastiano f.l.m.   Forse ancora in ambito culturale mediceo, si colloca il Reliquiario di san Gregorio Magno. Su una base modanata, in legno ebanizzato, poggia la piccola cornice ad altarolo ottagona con applicazioni in bronzo fuso, dorato e traforato con cherubini, volute e gigli. Al centro è l’immagine del santo papa a mezza figura, in preghiera. Sulla destra si intravedono la tiara pontificia ed i libri, attributi del <<Dottore della Chiesa>>. Siamo di fronte ad una raffinata opera di arte fiorentina come testimoniano l’elegante cornice, propria di maestranze attive nei primi anni del Seicento. Quanto al dipinto, ad olio su tavola, è possibile accostarlo ad opere pittoriche vicine ai modi di Cristoforo dell’Altissimo, famoso ritrattista attivo a Firenze tra il 1552 e il 1605. (Fig. 8)

Nel museo della Compagnia si conserva una serie di piccoli reliquiari da collo, opere rare di devozione privata, giunti al Gesù in dono o lasciti. Sicuramente il più antico è il Reliquiario del legno della croce, a forma di croce in cristallo di rocca, legato in argento, entro custodia originale in pelle; nella parte inferiore è l’autentica in cera lacca. La preziosa reliquia ha una lunga storia: nel 1637 fra’ Pietro Francesco Muccioli dei Minori Conventuali la concedeva ad un principe tedesco di Norimberga, già conservata <<in theca crystallina formae crucis argenteo filograno, ornata bene clausa>> 8. Nel 1703 il P. Antonio de Rego, gesuita di Norimberga, la donava alla chiesa del Gesù di Roma, apponendovi la sua autentica, confermata poi dal P. Tirso Gonzales. (Fig. 9)

Alla prima metà del Seicento può datarsi il Reliquiario di Santa Cecilia, dipinto ad olio su vetro, con piccola cornice in osso. Si tratta probabilmente di un’opera veneziana, come documenta la tecnica della pittura su vetro, diffusa a Venezia proveniente dall’Oriente Cristiano, ad opera di un pittore popolare, espressione di una cultura devozionale. La santa è raffigurata a mezzo busto con indosso una preziosa veste dorata; a sinistra si vedono le canne di un organo portatile, strumento simbolo che la identifica. È noto che il culto di Cecilia, martire romana, vide una larga diffusione dopo il ritrovamento del suo corpo incorrotto, sotto l’altare maggiore della basilica trasteverina a lei intitolata nel 1600 (Fig. 10).

Di fattura emiliana, databile alla metà del Seicento, è il Pendente della beata Giuliana bolognese, invocata contro il tifo.  Malvasia ricorda che nel Museo Cospiano esisteva un dipinto di Lucio Massari, raffigurante la beata Giuliana con Cristo e la Madonna (ante 1677) 9.  Nel 1628 il P. Certosino Bernardo Pelliccioni di Modena ne scrisse la vita: la nobildonna vedova Juliana de Bantis, vissuta nel IV secolo d.C.  E’ noto che Giuliana offrì a san Petronio il denaro per costruire la chiesa di santo Stefano dove, in una cappella non più esistente, si trovava il sarcofago che custodiva le sue spoglie, con l’iscrizione <<Ecce corpo S. Juliana vidua >>, la stessa iscrizione presente intorno al dipinto. Il reliquiario si compone di quattro ovali in argento dorato raffiguranti la beata Juliana, la Madonna col Bambino e i santi gesuiti Luigi Gonzaga, Ignazio di Loyola, Francesco Saverio, Francesco Borgia. La Madonna sembra riprodurre un’icona mariana del XVI secolo (olio su tela), mentre lo stile della beata rimanda ad un pittore emiliano di metà Seicento. Popolare la tecnica pittorica è lo stile dei quattro santi gesuiti. All’esterno, sulle due antine sono i simboli << IHS>> e <<MRA>>. Il reliquiario è racchiuso in una custodia ovale 10 (Fig. 11).

Restando nell’ambito dei reliquiari da collo, troviamo il Reliquiario delle ss. Anna e Rosa da Viterbo, con una cornice a volute in filigrana d’argento dorata. Sebbene la filigrana sia una tecnica siciliana, tuttavia anche a Roma esistevano degli argentieri in grado di eseguirla. Tra gli argentieri << filogranari>> si ricorda la famiglia Maddaleni, attiva nella seconda metà del Seicento e quella dei Mancini, nella seconda metà del Settecento. Quanto alla datazione si propone una cronologia tardo-seicentesca. Altro gioiello devozionale è il Reliquiario del velo della Madonna e di santa Vittoria V. e M. sempre con cornice in filigrana della piccola teca.  Si deve notare che questi piccoli reliquiari-gioiello mostrano quasi sempre reliquie femminili, perché venivano indossate da donne.   Al XIX secolo si data il Reliquiario di sant’Anna in cristallo di rocca legata da una sobria cornice in argento filigranato.  La stessa tipologia di gioiello mostra anche il Reliquiario di san Massimiliano di Tebessa dove la teca ovale è incorniciata da aereo fogliame in argento. La reliquia è un dente del santo martire vissuto nel III secolo d.C., a 21 anni, dopo aver rifiutato di fare il servizio militare nell’esercito romano. Di lui si hanno scarse notizie, esistono tuttavia gli << Acta Maximiliani>> che riportano la sua vicenda. È sepolto a Cartagine.

Torniamo ora ai reliquiari ad ostensorio: tre praticamente uguali, il più antico in argento conserva una piccola reliquia << Ex carne s. Teresa vergine/ Teresa de Jesus>> (Fig. 12). Molto probabilmente si tratta dei più remoti reliquiari della Compagnia (post 1622 anno della canonizzazione di questi santi) che, in un secondo momento, vennero “poggiati” su una basetta a forma di angelo in metallo fuso e dorato che, con le braccia levate, sostiene la piccola teca. Il modello dell’angelo deriva da un prototipo di Francesco Mochi, conservato nel Museo di Palazzo Venezia, che conobbe una diffusione per tutto il Seicento. Della stessa tipologia sono gli altri due reliquiari, praticamente identici al precedente, uno dei quali potrebbe essere il più antico ricordo di sant’Ignazio, nome inciso sulla cornice (post 1622). Entrambi sono sostenuti dagli stessi angeli 11.

Alla prima metà del XVII secolo, appartengono i due piccoli reliquiari in bronzo fuso e dorato. Su una base circolare con nodo a vaso si innesta la teca ottagona raggiata contenente le reliquie dei ss. Venusto, Modesta e Prospero. Stilisticamente sono riferibili all’argenteria romana di metà Seicento quando la tipologia dei “raggi solari” si diffonde ampiamente nella suppellettile sacra (Fig. 13). Commissionati per l’altare della Madonna Immacolata, come dimostra l’incisione sulla base, è la serie di quattro reliquiari ad ostensorio con un ornato costituito da grandi volute fogliacee, intervallate da cherubi, in lamina d’argento sbalzata e cesellata, su base e anima in metallo. La piccola teca rotonda, forse non pertinente, sorretta da due angioletti termina con una croce. Non è stata rilevata la presenza di bolli, tuttavia sia il modello che lo stile, decisamente barocco, suggeriscono una datazione all’ultimo quarto del XVII secolo (Fig. 14). Il piccolo Reliquiario dei capelli della Vergine, entro una teca ovale che riquadra un cuore in cristallo di rocca e il cartiglio “de capillis B.Virg. deiparae”, si data al 1708 anno dell’autentica della reliquia :<< Reliquiario ex crystallo de monte con filigrana d’argento messa dentro un reliquiario grande di metallo dorato con palme e angelo>> 12. La piccola immagine dell’Immacolata potrebbe essere un’aggiunta posteriore.  Dell’inizio del XVIII secolo è la coppia di reliquiari ad ostensorio in bronzo fuso e dorato. Ancora una volta si trovano gli angeli in bronzo fuso in cui si ripete la stessa iconografia, desunta da Mochi, che sorreggono la teca quadrata incorniciata da ampio volute a orecchioni di gusto chiaramente barocco, terminanti con croce apicale. Contengono le reliquie dei ss. Giuseppe, Giovanni Battista, san Gioacchino e sant’Anna; l’altro, un pezzo del dito del santo fondatore dell’Ordine che è raffigurato su una placchetta d’argento apposta alla base della mostra (Fig. 15).

Rarissima è la brunitura e inconsueta la dimensione di tre reliquiari in lamina d’argento brunito, sbalzato e cesellato, su base e anima in legno dorato. Contengono le reliquie di san Tommaso apostolo, san Barnaba apostolo e san Maurizio.  Sono presenti il bollo camerale (1787-1789) e quello dell’argentiere Girolamo Francescoli, attivo dal 1776 al 1802. Le date ci informano che furono realizzati durante la soppressione dell’Ordine. La loro misura rimanda ad un altarolo per la devozione privata, forse di un padre gesuita. Dello stesso argentiere sono anche altri due reliquiari in lamina di argento brunito sbalzato e cesellato, su base e anima in metallo dorato. La decorazione è ancora rocaille in uso nell’ argenteria romana dell’ultimo quarto del Settecento. Le piccole teche contengono le reliquie dei martiri protocristiani Protaso e Clemenza (Fig. 16).

Esempio di stauroteca, ossia di una croce contenente la reliquia del legno santo, è il Reliquiario della croce in lamina d’argento su base e anima lignea; al centro della base è raffigurata la Veronica. Bell’esemplare di raffinata sobrietà di argenteria romana dell’ultimo quarto del XVIII secolo che, in base al bollo camerale si data con precisione agli anni 1777-1779.  Anche questa è opera di Girolamo Francescoli.  Sulla stauroteca è presente anche il suo bollo, una zampa di leone con stella, precedentemente usato da Mattia Venturesi. Era figlio dell’orefice Vincenzo viterbese e teneva bottega in piazza della Chiesa Nuova (Fig. 17).

Ancora alla seconda metà del XVIII secolo può datarsi l’elegante Reliquiario di san Giuseppe, opera di artista veneziano, proveniente, come dono, dal Palazzo Cini di Ferrara. Un disegno acquerellato raffigura il santo vecchio in un atteggiamento di grande affettuosità con il Bambino che lo accarezza. Stilisticamente l’opera si colloca con certezza in ambito veneziano: confronti con disegni dei grandi maestri della pittura lagunare, permette di avvicinarlo al Tiepolo, autore di numerose opere con questo soggetto, tra Piazzetta e Guardi. Da sottolineare l’anomala rappresentazione di Giuseppe, quasi completamente calvo: forse il ritratto del committente. La prestigiosa provenienza confermerebbe l’attribuzione proposta. Il disegno è la parte posteriore di un reliquiario a medaglione in argento con una cornice formata da un nastro attorcigliato, terminante in alto con un doppio fiocco e rami di fiori, secondo modelli tipici dell’epoca (Fig. 18).

 Di particolare interesse storico è il Reliquiario dei SS. Ignazio e Francesco Saverio, commissionato nel 1786 da << Gli ex gesuiti spagnoli>>>. L’elegante, ma sobrio reliquiario ad ostensorio, rivela gli ornati propri del gusto neoclassico: foglie lanceolate, ghirlande di alloro, nastri e piccole teste di cherubi. Nonostante fosse stato commissionato in clandestinità da gesuiti spagnoli, ritengo sia opera di un argentiere romano, vicino ai modi del famoso Luigi Valadier, negli ultimi anni della sua attività. Oltre ad un indubbio valore artistico il reliquiario documenta l’incrollabile fedeltà dell’Ordine in un momento estremamente critico della sua storia (Fig. 19).

Il passaggio al gusto neoclassico di inizio Ottocento è testimoniato dal Reliquiario del Beato Francesco de Hieronimo in lamina d’argento, sbalzata e cesellata, su base e anima lignea. Nella piccola teca ovale è custodita la reliquia delle ossa del beato.  Sul pezzo sono stati rilevati i bolli dell’argentiere romano Gioacchino Belli, attivo negli anni 1788-1822. Il bollo camerale invece è relativo agli anni 1815-1860. Al 1806 si data l’autentica, mentre nell’inventario di sacrestia è così descritto.” Un reliquiario d’argento con l’immagine di S. Francesco di Geronimo, scolpito a cesello”. Su una base a grandi volute fogliacee poggiano due angeli nell’atto di sostenere la grande cornice a girali fogliacei e fiori, terminante in alto con il ritratto del santo. Tutto l’ornato rivela la grande maestria del Belli tra i più famosi argentieri del suo tempo (Fig. 20).

Alla prima metà dell’Ottocento, appartiene il bel reliquiario, ancora di gusto neoclassico, in metallo fuso e dorato e lamina d’argento sbalzata e cesellata. Sul plinto di base poggia una nube su cui stanno due putti a sorreggere la cornice della piccola teca, che contiene la reliquia di san Maurizio martire, come testimoniano le due grandi palme e il giglio. Siamo di fronte ad un esempio di argenteria romana di grande successo tanto da essere ripreso per tutta la prima metà del secolo. Maurizio militava nell’esercito romano comandante della Legione Tebana. Trasferito in Italia fu mandato in Piemonte per reprimere sommosse contadine contro l’impero. All’ordine di perseguitare i cristiani, Maurizio oppose un netto rifiuto, che lo condannò a morte. È sepolto nella cappella della Sacra Sindone a Torino. Il suo culto è legato dal XV secolo alla Casa Savoia che ha istituito l’ordine cavalleresco che porta il suo nome.

La difficoltà di studiare gli arredi sacri conservati oggi nel piccolo museo sta nel fatto che, della maggior parte di essi, non si conosce la storia pregressa, il luogo per il quale furono realizzati, la committenza e gli artisti. Le opere presenti sono ciò che resta dopo la dolorosa soppressione della Compagnia di Gesù nel 1773, seguita poco dopo dal Trattato di Tolentino (1797) che, insieme all’usura dei pezzi, hanno decimato i preziosi arredi, di cui resta memoria negli inventari. La soppressione, per far fronte alle necessità derivate, aveva reso necessaria la consegna degli argenti per pagare l’ingente tributo. Nel 1773 si dovette impegnare al Monte di Pietà ciò che rimaneva. Fecero il resto gli eventi anticlericali della Repubblica Romana (1848) e infine la secolarizzazione dei conventi con l’Unità d’Italia nel 1870. Quando nel 1814, con la Restaurazione, la Compagnia fu ripristinata per volere di Pio VII, la chiesa del Gesù si ritrovò spoglia di arredi sacri, ad esclusione di un calice di nessun valore, lasciato per dire la messa durante quegli anni. Salvo poche eccezioni, l’argenteria non presenta pezzi antichi e comunque nessuno risalente all’epoca di sant’Ignazio e di san Francesco Saverio. Tra gli oggetti conservati, alcuni provengono da conventi soppressi, merita comunque una nota la collezione di calici votivi del XIX secolo, donati ogni anno dal Comune di Roma, in ossequio ad un voto della Municipalità.

  1. A.M. Pedrocchi, Argenti sacri nelle chiese di Roma dal XV al XIX secolo. Repertori dell’Arte del Lazio, 2, Roma 2010.[]
  2. Roma, chiesa del Gesù, archivio del convento, carte sciolte.[]
  3. Ibidem, carte sciolte.[]
  4. Quando le tavole furono rimosse per essere restaurate nel 2014, si scoprirono le grandi nicchie piene di reliquiari diversi contenenti i sacri resti dei martiri e dei santi delle catacombe.[]
  5. Con la fondazione dell’Ordine si aggiunsero le reliquie dei martiri e dei santi gesuiti.[]
  6. A.M. Pedrocchi, Argenti sacri …, Roma, 2010, pp. 45-46, n 21.  Chiesa del Gesù, archivio convento, carte sciolte, come tutte le altre citazioni nel testo.[]
  7. Il trittico di Modena si trova dal 1803 nella Galleria Estense: nel 1937 Rodolfo Pallucchini lo attribuì a El Greco. Si veda Lionello Puppi (a cura di) El Greco in Italia. Metamorfosi di un genio, Milano 2015. Per Giulio Clovio invece si rimanda Kruno Prijatelj, in D.B.I., 26- 1982 ed a Cesare Onofri, La cerchia di Giulio Clovio: gli incontri, i viaggi,le amicizie di un artista europeo, dottorato di ricerca Storia dell’Arte, Università di Bologna, 2013.[]
  8. Roma, Chiesa del Gesù, archivio del convento,carte sciolte.[]
  9. C. Malvasia, Pitture sculture e architetture delle chiese di Bologna, ed.  Bologna 1782, p. 51.[]
  10. A New York, nel Museo di Brooklin si conserva una terracotta di Vincenzo Onori (1493-1524), che la ritrae. La beata è raffigurata anche su un trittico di Francesco Pelosi (1475) proveniente dalla chiesa di san Vitale, ora nella Pinacoteca Nazionale di Bologna. A metà Seicento di data un dipinto di Pacheco de Rosa (1607-1656).[]
  11. P. Cannata, Museo Nazionale del Palazzo di Venezia. Sculture in bronzo, Roma 2011, n. 168, pp. 139-140.[]
  12. Roma, Chiesa del Gesù, archivio del convento, carte sciolte.[]