Benedetta Montevecchi

Un ‘casetino di marmo intarsiato’ e altri marmi nel Palazzo Ducale di Urbino

benedetta.montevecchi@gmail.com
DOI: 10.7431/RIV31022025

La Galleria Nazionale delle Marche conserva un raro scrigno in alabastro con incrostazioni di marmi colorati, fregiato con lo stemma e l’emblema dei Della Rovere, signori del ducato di Urbino 1 (Fig. 1). Il manufatto propone la forma dei grandi cassoni lignei rinascimentali, con il corpo dall’ampio basamento, aggettante e arrotondato, che posa su zampe leonine; l’elaborata decorazione dei lati, su doppio odine, è suddivisa da un sottile bordo cordonato. Al centro dei lati lunghi è applicato lo stemma roveresco 2 (Fig. 2), intagliato in forte aggetto, racchiuso in una cornice a cartocci e fogliami e sormontato da una corona, ora in stato frammentario; al centro dei lati corti, emerge in leggero rilievo l’immagine della quercia sradicata, principale emblema dei Della Rovere (Fig. 3). Lo scrigno è chiuso da un coperchio a spioventi il bordo del quale riprende il profilo arrotondato del basamento. Numerosi, piccoli inserti di marmi colorati, tagliati in forme diverse e intarsiati nella superficie alabastrina, formano l’originale decorazione geometrica 3 completata da una sottile incisione, riempita di stucco nero, che incornicia le baccellature disposte lungo i bordi della base e del coperchio, e delinea i minuti elementi foliacei che ornano gli angoli. Lungo la fascia decorativa principale si susseguono formelle rettangolari in marmi policromi, suddivise, al loro interno, da listelli in marmo bianco che includono elementi ovali o romboidali alternati. Al di sopra, corre un decoro di intarsi policromi ovoidali, romboidali e quadrati, questi ultimi lievemente aggettanti ad imitazione di una gemma incastonata; tra gli intarsi sono praticati piccoli fori, disposti a croce, in cui sono inseriti minutissimi tondi, sempre in marmi colorati. Il coperchio – con sistema di chiusura affidato a due spine laterali poste nel lato corto – è ornato da intarsi quadrangolari la cui forma e dimensione varia per adattarsi all’andamento dei quattro spioventi. In cima era posta una ghianda con quattro foglie, elemento oggi mancante, ma presente nella descrizione dello scrigno riportata nell’Inventario dei beni del Palazzo Ducale di Urbino compilato nel 1631, alla morte dell’ultimo duca, Francesco Maria II. Nel documento si legge:

“Un casetino di marmo intarsiato con più colori di marmo et di porfido, con
cornice, con quattro zampe di leone, che qua e di la in faccia doi Arme di S[ua]
A
[ltezza] S[erenissima] et da capo et da piedi una cerqua et nel mezo del
coperchio
una gianda, con 4 foglie, con una centura nel mezo fodrata un
poco con veluto bianco”
4.

Nel 1631 lo scrigno si trovava dunque nel Palazzo urbinate dove rimase verosimilmente anche dopo che i beni allodiali Della Rovere erano stati trasferiti a Firenze, passati all’erede di Francesco Maria II, la nipote Vittoria, che nel 1637 avrebbe sposato il granduca Ferdinando II de’ Medici. In seguito, l’oggetto – non citato negli inventari di Casteldurante, ultima residenza di Francesco Maria II – dovette essere trasferito in una delle residenze ducali che sorgono nei dintorni di Pesaro, villa Imperiale e villa Miralfiore, entrambe vendute alla Camera Apostolica dai Lorena, eredi dei Medici, e nel 1777 concesse in enfiteusi da papa Pio VI agli eredi di papa Clemente XI Albani presso i quali lo scrigno è rimasto fino alla recente acquisizione da parte dello Stato 5.

Non sono note l’origine né la funzione di questo insolito manufatto, scarsamente maneggevole, del quale è difficile ipotizzare un impiego pratico, che non trova immediati confronti con lavori coevi, forse tipologicamente accostabile ad un’urna napoletana in marmi policromi e pietre dure, ma più tarda di qualche decennio, destinata a contenere reliquie 6. Per lo scrigno urbinate è da escludere un impiego devozionale, mentre sembra verosimile la destinazione alla dimora ducale per l’evidente presenza degli emblemi rovereschi ripetuti sui quattro lati. La lunga didascalia che illustrava il manufatto a suo tempo esposto in una delle sale del secondo piano della Galleria Nazionale delle Marche 7, ipotizzava che il cofanetto potesse essere stato realizzato in occasione delle nozze di Francesco Maria II con Lucrezia d’Este celebrate all’inizio del 1570, fungendo magari da contenitore di documenti relativi all’evento; ma l’ipotesi è improbabile per la presenza dei soli emblemi Della Rovere, mentre un ‘cofanetto nuziale’ avrebbe richiesto le immagini araldiche di entrambi gli sposi.

Altrettanto problematico è definire la committenza e l’ambito di realizzazione dello scrigno, forse riconducibile alle maestranze di marmorari attive, nella seconda metà del ‘500, per il Palazzo urbinate e precisamente per la decorazione della ‘Cappellina di Guidubaldo’, minuscolo ambiente a pianta pentagonale irregolare, ricavato “nella grossezza d’un muro” 8, tra la ‘Sala delle Udienze’ e l’andito verso lo ‘Studiolo di Federico’, impreziosito da stucchi, intagli in pietra della Cesana e marmi (Fig. 4). Le fonti documentarie, gli inventari e le vicende familiari attestano il continuo aggiornamento dei Duchi sulla grande produzione artistica testimoniata dalle committenze ai massimi pittori e scultori del loro tempo 9, ma anche il gusto per le arti decorative e per i materiali di pregio. Tra questi i marmi e le pietre colorate che, fino dai primi decenni del Cinquecento, trionfavano per la spettacolare varietà di materiali e cromie, oggetto di appassionata ricerca da parte di tutti i grandi collezionisti 10. Centro irradiatore per le “belle e utili pietre”, come vennero definite dal fiorentino Agostino del Riccio nella sua celebre Istoria delle pietre (1597), fu Roma: ed è proprio dall’Urbe che Girolamo Genga, tra maggio e agosto 1523, inviava alcune lettere a Francesco Maria I Della Rovere in merito all’acquisto di lastre di pietre e marmi colorati da impiegare nella decorazione delle residenze ducali 11. Già al tempo di Federico di Montefeltro, peraltro, quando l’umanesimo quattrocentesco recuperava echi del mondo antico interpretandoli secondo esiti nuovi e vitali, e nel Palazzo di Urbino gli ambienti del ‘Palazzetto della Jole’ venivano decorati sotto la direzione di Fra’ Carnevale, marmi colorati ‘dipinti’, realizzati a spruzzo come nella bottega di Filippo Lippi 12, impreziosivano quella vera e propria architettura lignea che è la celebre ‘alcova’ (1459 ca) 13. In seguito, pregiati marmi policromi venivano impiegati nella cosiddetta ‘Cappella del Perdono’ 14, il piccolo ambiente nato per ospitare le reliquie di proprietà della Casata, forse progettato da Francesco di Giorgio Martini alla fine degli anni ’70 del secolo 15, con pareti rivestite di marmi colorati 16 e teste di cherubini in stucco dipinto e dorato sul soffitto.

Quasi un secolo dopo, marmi pregiati vengono impiegati nel Palazzo urbinate nella citata ‘Cappellina di Guidubaldo’ per rivestire la parte inferiore delle pareti e lo spettacolare pavimento con le immagini delle ‘imprese’ roveresche. Il sacello venne fatto decorare dal duca Guidubaldo II Della Rovere tra la fine del settimo e l’inizio dell’ottavo decennio del Cinquecento, affidandone il progetto decorativo, come è stato ipotizzato, al grande plasticatore urbinate Federico Brandani (1520-1575) 17. Questi realizzò il soffitto in stucco con finissime decorazioni a grottesche, figure allegoriche, l’Annunciazione, la Natività e la Presentazione al Tempio, e fornì probabilmente anche il disegno per gli intagli dei pilastrini in pietra della Cesana che sottolineano le membrature parietali 18. Alla base delle eleganti candelabre di gusto quattrocentesco, simili a quelle in stucco della volta, è intagliata l’impresa formata dalle iniziali “VV”, unite dal nodo d’amore, allusive al nome latinizzato del duca, ‘Vbaldus,’ e a quello della moglie, Vittoria Farnese, sposata nel 1547: la sigla è ricorrente anche nei molti lavori commissionati al Brandani per il Palazzo ducale di Pesaro.

Con i delicati rilievi plastici del soffitto e i minuti intagli lapidei delle pareti si pongono in deciso contrasto gli ornati marmorei della parte inferiore della cappella, probabile indice della collaborazione progettuale del Brandani con l’architetto Filippo Terzi (1520 ca-1597) in quel periodo anch’egli impegnato nel Palazzo ducale di Pesaro 19. Gli ornati marmorei consistono nel parziale rivestimento parietale, un lambris in marmo bianco (Fig. 5) includente piccoli specchi in africano di varia forma — rotondi, ovali, romboidali, triangolari, con un ottagono centrale – morfologicamente accostabili ai trafori delle balaustre dei balconi del primo piano del Palazzo (Fig. 6), e nel magnifico pavimento, con grandi rotae in broccatellone rosato 20 alternate a specchiature nere, di forma irregolare determinata dalla planimetria, nelle quali risaltano, intarsiati in marmo bianco, imprese e simboli Montefeltro e Della Rovere (Fig. 7). All’araldica di Guidubaldo II appartengono l’’Ara della Sibilla Cumana’, le Torri dei ‘Templi dell’Onore e della Virtù’ e le ‘Tre mete’, impresa particolarmente amata dal duca e ripetuta due volte; vi sono poi due imprese di Federico di Montefeltro adottate anche dai Della Rovere e cioè l’’Ermellino’ e la ‘Granata esplodente’, accanto al principale simbolo della Casata, la quercia sradicata dai rami intrecciati 21. Lungo il perimetro del pavimento, è incisa una decorazione a minute volute affrontate, affine a quella che compare nel vestibolo della ‘Cappella del Perdono’ e del ‘Tempietto delle Muse’, mentre due fasce a motivi geometrici bianchi e neri riempiono il breve spazio rientrante nella zona absidale. Materiali e tecniche decorative della cappella – marmi intarsiati, pietra intagliata, stucco modellato – si pongono in ideale prosecuzione con quelli della quattrocentesca ‘Cappella del Perdono’: il rivestimento parietale e il pavimento marmorei, in particolare, confermano l’adesione degli artisti di Guidubaldo II al recupero dell’antico uso dei marmi policromi e al loro impiego per rivestimenti architettonici di cui Roma e Firenze fornivano esempi superbi.

Tornando allo scrigno in esame, è ipotizzabile che l’oggetto sia stato realizzato dalla bottega di marmorai attivi per la ‘Cappellina di Guidubaldo’, forse offerto al committente come una sorta di ‘saggio’ dove la perfezione degli intarsi, l’intaglio dei rilievi, le delicate incisioni ‘niellate’ suggerivano la perizia degli artefici e richiamavano le decorazioni antiche del Palazzo. E, inoltre, la quantità e varietà dei tasselli marmorei costituivano una originale litoteca, un ‘campionario’ di marmi colorati, un oggetto da Wunderkammer che bene poteva inserirsi nell’eterogeneo insieme di svariati e preziosi manufatti collezionati dai Della Rovere e citati negli inventari. Lo scrigno resta tuttavia un unicum nelle raccolte ducali, presente nel solo inventario del Palazzo di Urbino del 1631, elencato incongruamente tra statue e ritratti marmorei 22, forse non apprezzato da Francesco Maria II, continuatore dei lavori della Cappellina alla morte del padre (1574). Nei lavori in marmo di propria committenza, Francesco Maria II avrebbe preferito il marmo bianco oppure l’icastico contrasto di marmi bianchi e neri 23, già prevalente, peraltro, nel decoro del sacello paterno. Lo scrigno, pertanto, non seguì la strada dei beni rovereschi verso Casteldurante, ma rimase in una delle dimore pesaresi per tornare, infine, nel Palazzo Ducale di Urbino, conservato nelle collezioni della Galleria Nazionale delle Marche.

  1. Lo scrigno, oggetto di una mostra monografica nella Galleria Nazionale delle Marche (Urbino, 4 agosto 2012 – 7 gennaio 2013), è stato illustrato nel pieghevole Uno scrigno roveresco. L’ultima acquisizione della Galleria Nazionale delle Marche, a cura di Maria Rosaria Valazzi.[]
  2. Arme inquartato: nel I, d’oro all’aquila di nero rostrata, membrata e coronata d’oro; nel II, d’azzurro, alla rovere sradicata d’oro coi rami passati in doppia croce di Sant’Andrea; nel III, bandato di azzurro e d’oro, con un aquilotto di nero coronato dello stesso posato nella seconda banda d’oro; nel IV, partito; a destra interzato in palo a) fasciato d’argento e di rosso; b) d’azzurro seminato di gigli d’oro; c) d’argento, alla croce scorciata e potenziata d’oro, accantonata da quattro crocette scorciate dello stesso; a sinistra d’oro a quattro pali di rosso (cfr. M. Bonvini Mazzanti, Potere e ‘Res Aedificatoria’. Storia di Piazza e Palazzo del Duca a Senigallia, Ostra Vetere (AN) 1992, p. 63); D. Diotallevi, Stemma, in I Della Rovere, a cura di P. Dal Poggetto, catalogo della mostra (Senigallia, Urbino, Pesaro, Urbania, 4 aprile – 3 ottobre 2004), Milano 2004, pp.454-455. Nel rilievo, forse per le ridotte dimensioni, manca il palo centrale relativo al Gonfalonierato della Chiesa.[]
  3. La minuscola dimensione degli intarsi marmorei ne rende problematica l’identificazione anche se sembra di potere individuare frammenti di marmi archeologici accostati a marmi moderni (rosso antico, giallo antico, diaspri); ringrazio Andrea De Marchi per i suggerimenti in merito. Per l’amichevole scambio di pareri nel corso del lavoro ringrazio inoltre Claudia Caldari, Daniele Diotallevi, Alessandro Marchi, Giovanni Russo.[]
  4. Documenti urbinati. Inventari del Palazzo Ducale (1582-1631), a cura di F. Sangiorgi, Urbino 1976, p.220.[]
  5. C. Magini, Cofanetto, in Uno scrigno roveresco…, 2012.[]
  6. M.I. Catalano, Urna portacroce, in Civiltà del Seicento a Napoli, catalogo della mostra (Napoli, 1984-1985), Napoli 1984, II, pp.396-397.[]
  7. L’opera è attualmente esposta al primo piano della Galleria, nella Sala del ‘Re d’Inghilterra’.[]
  8. B. Baldi, Descrittione del Palazzo Ducale d’Urbino, a cura di A. Siekiera, Alessandria 2010, p. 93.[]
  9. I Della Rovere. Piero della Francesca, Raffaello, Tiziano, a cura di P. Dal Poggetto, catalogo della mostra (Senigallia, Urbino, Pesaro, Urbania 2004), Milano 2004.[]
  10. C. Napoleone, Il collezionismo di marmi e pietre colorate dal sec. XVI al sec. XIX, in Marmi antichi, a cura di G. Borghini, Roma 1989, pp.99-115; A.M. Giusti, I marmi colorati dopo la Roma imperiale: episodi di una fortuna mai ‘scolorita’, in I marmi colorati della Roma imperiale, catalogo della mostra (Roma, 28.9.2002-19.1.2003), a cura di M. De Nuccio, L. Ungaro, Venezia 2002, pp.555-557.[]
  11. G. Gronau, Documenti Artistici Urbinati, Firenze 1936, pp.259 ss.; S. Eiche, I Della Rovere mecenati dell’architettura, in Pesaro nell’età dei Della Rovere, III, 1, Venezia 1998, pp.231-263 (pp.234-235); R. Bartalini, Genga nell’Urbe, in Girolamo Genga. Una via obliqua alla “maniera moderna”, a c. di B. Agosti, A.M. Ambrosini Massari, M. Beltramini, S. Ginzburg, Bologna 2018, pp.179-195 (pp.180-181).[]
  12. Un documento del 1453 attesta che Fra’ Carnevale possedeva un pezzo di porfido, verosimilmente per copiarlo dal vero; cfr. F.R. Mainieri, Un’alcova in legno dipinto in cui proteggersi dai rigori invernali, in Il Rinascimento a Urbino. Fra’ Carnevale e gli artisti del Palazzo di Federico, catalogo della mostra (Urbino, 2005), a cura di A. Marchi, M.R. Valazzi, Milano 2005, pp. 231-251 (p. 236); documento n. 43, ibidem. p. 262.[]
  13. M. Ceriana, Fra’ Carnevale e la pratica dell’architettura, in Fra Carnevale. Un artista rinascimentale da Filippo Lippi a Piero della Francesca, catalogo della mostra (Milano, New York, 2004-2005), a cura di M. Ceriana, K. Christiansen, E. Daffra, A. De Marchi, Milano 2005, pp. 96-135 (p.118).[]
  14. La Cappella del Perdono e l’adiacente Tempietto delle Muse sono due piccoli ambienti affiancati, ai quali si accede da un vestibolo situato al piano terra del Palazzo, a ridosso della loggia tra i torricini.[]
  15. H. Burns, “Restaurator delle ruyne antiche”: tradizione e studio dall’antico nell’attività di Francesco di Giorgio, in Francesco di Giorgio architetto, a cura di F.P. Fiore, M. Tafuri. Milano 1993, p. 173, 181, nota 173; G. De Zoppi, La cappella del Perdono e il tempietto delle Muse nel Palazzo Ducale di Urbino. Analisi e proposta d’attribuzione a Francesco di Giorgio Martini, in “Annali di architettura”, n. 16 (2004), p. 9 (http://www.cisapalladio.org/annali/pdf/a16_01_dezoppi.pdf).[]
  16. La dettagliata analisi dei marmi della cappella è in da G. De Zoppi, La Cappella del Perdono e il Tempietto delle Muse nel Palazzo Ducale di Urbino. Analisi, rilievo e proposta d’attribuzione a Francesco di Giorgio Martini, Tesi di laurea, IUAV, a.a. 2001-2002; cfr. anche C. Wedepohl, La devozione di un principe umanista: “Cappella del perdono” e “Tempietto delle Muse” nel Palazzo Ducale di Urbino, in Il sacro nel Rinascimento, a cura di L. Secchi Tarugi, Firenze 2002, p. 500[]
  17. L’ipotesi è di D.J. Sikorsky, Il Palazzo Ducale di Urbino sotto Guidubaldo II (1538-74). Bartolomeo Genga, Filippo Terzi e Federico Brandani, in Il Palazzo di Federico da Montefeltro, restauri e ricerche, a cura di M.L. Polichetti, Urbino 1985, pp.67-90 (82-83); per la descrizione degli stucchi, cfr. A. Antonelli, Cappellina di Guidubaldo II, in 1631-1981. Un omaggio ai Della Rovere. Saggi, schede di opere restaurate, a cura di G. Gori, M. Luni, Urbino 1981, pp.57-59; per la datazione intorno agli anni 1570-1571, cfr. M. Procaccini, Federico Brandani “eccellentissimo plasticatore”: tra l’Urbe, la Marca e il ducato di Savoia, in “Horti Hesperidum”, Atti delle giornate di studi (Roma 2018), a cura di S. Quagliaroli, G. Spoltore, Roma 2019, I, pp.193-214 (p. 208).[]
  18. Le lesene affiancano i tre dipinti del pittore veneto Nicolò Frangipane (1555-1600) raffiguranti la Madonna col Bambino, San Michele arcangelo e San Francesco (Documenti urbinati…, 1976, Inventario 1599, p. 73); il pittore è documentato al servizio di Francesco Maria II dal 1580 al 1583: i dipinti dovettero dunque essere collocati nella cappella in quel lasso di tempo; cfr. The Court Artist in Seventeenth-Century Italy, a cura di E. Fumagalli e R. Morselli, Roma 2014, p. 61.[]
  19. Il bolognese Filippo Terzi fu architetto delle fabbriche ducali fino al 1576, occupandosi anche di addobbi, apparati scenografici e arredi sacri come i due tabernacoli del SS. Sacramento per il duomo di Pesaro e per quello di Fano; cfr. G. Volpe, Filippo Terzi architetto delle fabbriche ducali, in I Della Rovere nell’Italia delle corti. II, Luoghi e opere d’arte, a cura di B. Cleri, S. Eiche, J.E. Law, F. Paoli, Urbino 2002, pp.79-103 (p.90).[]
  20. D. Del Bufalo, Marmi colorati. Le pietre e l’architettura dall’Antico al Barocco, Milano 2003, pp.122-123.[]
  21. Sui simboli e le imprese araldiche di Guidubaldo II e, più in generale, dei Montefeltro e dei Della Rovere, vedi M. Luchetti, Le imprese dei Della Rovere: immagini simboliche tra politica e vicende familiari, in Pesaro nell’età dei Della Rovere, III, 1, Venezia 1998, pp. 57-93; L. Ceccarelli, “Non mai”. Le “imprese” araldiche dei Duchi d’Urbino, gesta e vicende familiari tratte dalla corrispondenza privata, a cura di G. Murano, Urbino 2002, pp.129-145; C. Caldari, Emblemi, imprese, onorificenze: Federico di Montefeltro letterato, condottiero e mecenate, in Ornatissimo Codice. La biblioteca di Federico di Montefeltro, catalogo della mostra (Urbino 2008), a cura di M. Peruzzi, con C. Caldari e L. Mochi Onori, Milano 2008, pp. 101-111. Sull’emblema della ‘Granata esplodente’, in particolare, v. A. M. Testaverde, An Emblem for War and Spectacle: The Grenade at The Court of Urbino between the Fifteenth and Seventeenth Centuries, in Eliciting Wonder: The Emblem on the Stage, a cura di R. De Marco, A. Guiderdoni, Glasgow 2022, pp.3-25. Per una diversa interpretazione dell’emblema della ‘granata’ come ‘ventosa’, già illustrata da M. Luchetti (M. Luchetti, Le imprese dei Della Rovere…, 1998, p. 68), vedi A. Conti, Discorsi sulle imprese di Federico di Montefeltro. Storiografia e nuove ricerche su divise, imprese e livree, Gubbio 2023, p.156.[]
  22. Documenti urbinati…, 1976, pp.210-220.[]
  23. Nei suoi ultimi anni il duca fa realizzare, nell’austero accostamento cromatico bianco e nero, la propria tomba (1625, Urbania, chiesa del Crocifisso), una semplice lastra circolare di lavagna, con iscrizione e stemmi, sormontata da un’acquasantiera. Sulle sculture commissionate da Francesco Maria II, cfr. E. D. Schmidt, Giovanni Bandini tra Marche e Toscana, in “Nuovi Studi. Rivista di Arte antica e moderna”, 6, 1998, III, pp. 57-103, (57-66).[]