Simona Rinaldi

I Rucellai e la tintura all’oricello dal XIII al XV secolo

rinaldi@unitus.it
DOI: 10.7431/RIV31012025

La consueta bibliografia sui coloranti per tintoria, costituita da trattati, ricettari e ricerche moderne sulla loro composizione chimica e la loro storia, oggi può fare utilmente ricorso anche agli studi di storia economica, che insieme all’organizzazione del lavoro, spesso dedica degli specifici approfondimenti alle materie prime impiegate dagli antichi tintori.

Da tali studi emerge chiaramente come la produzione e il commercio dei panni di lana rappresentassero nel Duecento la principale risorsa economica di Firenze 1, che importava dalla Francia e dalle Fiandre, ma soprattutto dall’Inghilterra, sia la pregiata lana, che panni «semilavorati che sarebbero poi stati rifiniti nelle botteghe» locali 2.

Di recente è stato pubblicato il Libro discepoli e pigione della tintoria fiorentina Rucellai, che rappresenta la più antica testimonianza contabile precedente alla peste nera di metà Trecento, ed è datato dal 1341 al 1346. Il testo riveste una notevole rilevanza sia per il gran numero di salariati e il suo alto grado di specializzazione, che la rendeva appartenente all’Arte Maggiore (quindi abilitata a utilizzare le materie tintorie più costose), sia per l’identità del suo proprietario, Giunta di Nardo Rucellai appartenente a una delle famiglie fiorentine maggiormente attive nella corporazione dell’Arte della Lana.

Inoltre, tra 1318 e 1321 Giunta di Nardo Rucellai si era associato con il tintore Fazio di Cenni per fornire all’Arte di Calimala Del Bene la tintura in rosso scarlatto dei drappi francesi con il kermes, e negli stessi anni altri tre membri della famiglia Rucellai sono nominati come tintori di oricello o oricellai: il fratello di Giunta, Cenni di Nardo e i cugini Andrea di Nino e Niccolò di Nino 3.

Nel primo Statuto dell’Arte della Lana del 1317, che è il più antico conservato, anche se non il primo ad essere redatto, i tintori specializzati nella preparazione dell’oricello sono citati accanto ai ‘vagellari’ che erano coloro che si servivano del vagello, cioè del tino per la tintura azzurra del guado, testimoniando così l’importanza che rivestiva la tintura all’oricello per i panni fiorentini.

Nello studio della documentazione contabile di Giunta di Nardo Rucellai si ripercorre la genealogia della famiglia e con essa l’origine del nome dei Rucellai, che deriverebbe appunto da ‘oricellario’ 4, passato poi in ‘rucellario’ e infine ‘Rucellai’. L’etimologia è ricostruita facendo riferimento alla testimonianza seicentesca di Eugenio Gamurrini (1668) 5, e poi di quelle ottocentesche di Luigi Passerini (1861) 6, Emilio Bacciotti (1886) 7 e altri 8.

Gli studi più recenti non smentiscono la leggenda, anzi la utilizzano pienamente, richiamando i viaggi compiuti tra 1261 e 1263 da tale Alamanno del Giunta, il quale scoprì casualmente che bagnando con urina una pianta che fuoriusciva dalle rocce, si produceva un colorante violetto 9.

Non si chiarisce dove Alamanno fece tale scoperta: se in un Levante non meglio precisato (talvolta i testi ottocenteschi fanno fugaci accenni alle isole greche) oppure nelle isole Canarie, dove comunque l’esportazione dell’oricello divenne sistematica a partire dal 1402.

In ogni caso, trapiantata a Firenze la pianta, che era in realtà un lichene, il colorante estratto fu chiamato oricello (designando invece con il nome di raspa o erba raspa il lichene di partenza), favorendo così la ricchezza dei tintori che se ne servivano, i quali furono chiamati Oricellari, modificando progressivamente il loro nome, e impegnandosi dal 1302 attivamente nella vita politica della città, fornendo nel corso dei successivi decenni ben ottantacinque priori e quattordici gonfalonieri di giustizia.

Se la genealogia dei Rucellai è sufficientemente chiarita, il contenuto principale della leggenda mantiene ancora dei punti oscuri, sia in ordine al luogo della scoperta dell’oricello, sia per quanto concerne la datazione: infatti, se si consulta il Tesoro della lingua italiana delle origini (TLIO), si rintraccia il lemma ‘oricello’ attestato per la prima volta in un documento senese del 1277-82 che cita «quaranta lib[bre] d’oricello» date «ad Achorso tingitore» 10. Agli anni 1281-97 risale il documento fiorentino più antico dove si menziona l’acquisto dell’oricello da inviare «a Orbivieto a Bartolomuzio di Cherado» 11.

Altri documenti senesi degli anni 1298-1309 evidenziano la difficoltà di trovare l’oricello a Siena: «E cunciosiacosa che li omini e le persone dell’Arte de la Lana de la città di Siena siano encorse et encorra en grandissimo espese per cascione del poco oricello che s’à ne la città di Siena emperciò che cie n’è poco, et àssi solo per mano d’una persona» 12.

In un documento pisano del 1321 si vieta poi a «nessuna persona della cità di Fiorensa, u vero del suo distrecto, u vero d’altre parti, porti u vero portare faccia, cavi u vero cavare faccia della cità di Fiorensa, u vero del suoi borghi et soborghi, u vero del suo contado, alcuna lana, stame, boldroni, u vero alcuno lanaggio, guado, cardi, oricello u robbia» 13.

Oricellari erano peraltro chiamati dal 1483 gli Orti, ovvero il giardino annesso alla più antica abitazione della famiglia Rucellai, precedente alla costruzione del loro noto Palazzo a Firenze. Tale residenza si trovava presso Santa Maria Novella, e Bernardo Rucellai trasformò il giardino in cui coltivava l’oricello, in un cenacolo dove si incontravano letterati, umanisti, filosofi ed eruditi volendo replicare il giardino delle muse dell’antichità, dato che negli Orti Oricellari non erano presenti solo preziose specie arboree, ma anche marmi e sculture antiche 14.

Appare evidente come sin dall’ultimo quarto del Duecento l’oricello fosse diffusamente commercializzato in Toscana, e subito sorge il quesito sull’etimologia del termine ‘oricello’ che i dizionari italiani non danno come accertato.

Le ricerche condotte da Harsch ipotizzano attendibilmente che l’origine del nome italiano dell’oricello derivi dal catalano orxella, a sua volta modellato sulla denominazione mozarabica ûrjâla, dato che l’orxella compare in alcune ordinanze di Barcellona del 1271 e del 1288, dimostrando così di essere un colorante tintorio ben conosciuto a quell’epoca in Spagna 15. Dagli scambi commerciali emerge infatti che l’oricello proveniva all’epoca dalle isole Baleari, poiché il mercante fiorentino Salvo Perfetti, dimorante a Genova, comprava nel 1274 una partita di «orexelum» da Beltrame Garado di Maiorca 16, mentre già nel 1281 la «pulverem auricelli» era acquistata dal fiorentino Nuccio Compagni 17. Anche Francesco Balducci Pegolotti conferma nel Trecento la provenienza da Maiorca della «polvere d’oriallo» 18, e Francesco di Marco Datini nel 1395 invia al suo rappresentante catalano un campione di oricello in polvere per essere sicuro che fosse esattamente riconosciuto:

La polvere di Maiolicha vole esere minuta chome questo sagio; anchora piue minuta se lla trovassi. E vole avere la buona, di quelle barbuccie che tue vedi in questo sagio; quanto piue ve n’à, tatto la teniamo fine. Anchora quatare che lla sia piue tosto uno poco brunetta che chosi biancha; e se v’avesse alchuno fiorelino rosso mescholato, ch’ène chom uno di quegli granelli della polvere, la tengiamo buona. Quatarse che lla sia legiera e olorosa e avisartti di quale poccio la choglie, quella che mandarai, o di quale valata, siché se lla adoperassi, bene ne fossi avisato 19.

Con la scoperta delle isole Canarie nel 1312 da parte del genovese Lanzarotto Malocello, i loro territori divengono oggetto di conquista e nel 1402 sono inglobati nel regno del castigliano Enrico III. L’oricello delle Canarie soppianta dal XV secolo quello delle Baleari, divenendo la fonte prevalente del colorante tintorio, come riferisce anche il l’esploratore veneziano Alvise Da Mosto che visita le Canarie nel 1455 affermando: «se traze de queste isole summa de una herba che se chiama oricello che se tenze con essa panni: la qual capita in Cades nel rimo de Sibilia & de li si navega per levante & per ponente» 20. Il porto di Cadice citato da Da Mosto (che si occupava anche di far giungere a Venezia l’oricello) assicurava l’esportazione del colorante in tutta Europa, e nell’ultimo quarto del Quattrocento tale esportazione diviene una sorta di monopolio genovese 21.

La storia dell’oricello si arricchisce di un ulteriore capitolo con la conquista del continente americano che favorisce l’ingresso in Europa di ulteriori fonti di reperimento, costituite dalle specie di Roccella portentosa (da Cile e Perù), di Dendrographa leucophaea dalla California messicana, e di Ochrolechia parella e Lecanora parella dalle regioni settentrionali americane, che si aggiungono ad altre specie europee come la Ochrolechia tartarea proveniente da Scozia, Galles e penisola scandinava 22. Dagli studi botanici condotti per l’identificazione delle singole specie si è chiarito che il lichene presente a Creta è derivato dalla Roccella phycopsis, mentre in Portogallo e nelle isole di Capo Verde il lichene nativo proviene dalla Roccella fuciformis e maderensis 23.

Un’altra specie utilizzata sin dal Medio Evo nelle Fiandre, poi esportata in Francia, è la Pertusaria dealbescens, più nota come oricello dei Pirenei o d’Auvergne, presente al di sopra di rocce crostacee non calcaree e pertanto definita come oricello di terra, da differenziare dall’oricello di mare o d’erba caratterizzante le varie specie di Roccella. L’oricello d’Auvergne o dei Pirenei è citato nel duecentesco Livre des Mètiers di Parigi in un’aggiunta del 1322 con il nome «fueil» 24, a proposito del quale si indicano i sinonimi di «fuel, foeul, foly» che sono ricondotti al latino folium, presente nei ricettari medievali italiani con la denominazione di ‘tornasole’ o ‘laccamuffa’, per ottenere una colorazione variabile dal rosso-bruno al rosso violaceo fino all’azzurro 25.  In realtà tale colorante, generalmente estratto dalla Chrozophora tinctoria Juss., era ottenuto nei Paesi Bassi anche dalla Ochrolechia tartarea e si spiega così la terminologia piuttosto caotica che si incontra nelle fonti 26.

Tutti i licheni citati garantiranno la tintura all’oricello fino alla Rivoluzione Industriale quando nel 1835 il chimico Pierre Jean Robiquet (1780-1840) riesce a ottenere in laboratorio il principio colorante dell’orceina sintetica che da allora soppianta del tutto quella naturale 27.

La principale ragione del successo dell’oricello può essere facilmente individuata nella sua estrema semplicità d’impiego quando era utilizzato nella tintura della lana. In questo caso, infatti, non c’era nessuna necessità di trattare il filato o il tessuto con dei mordenti metallici, perché l’oricello consentiva una colorazione diretta per semplice immersione nel recipiente contenente il colorante 28.

Con tale metodo si potevano tingere grandi quantità di lana, che dagli studi condotti sulla tintoria Rucellai sappiamo che almeno tra la fine del 1200 e il 1300 non comprendeva la lana in fiocchi, bensì preferenzialmente i panni già tessuti importati dall’Europa settentrionale e che erano rilavorati e rifiniti a Firenze: qui in particolare erano tinti, sciacquati in Arno, e posti ad asciugare sulle mura cittadine, come testimonia l’affitto di un terreno concesso nel luglio 1343 dal comune di Firenze ai Rucellai per la cifra simbolica di un fiorino all’anno, che comprendeva anche la manutenzione del terreno e del tratto di mura cittadine 29.

Le testimonianze sulla manifattura della tintura all’oricello nella letteratura artistica sono numerose e al tempo stesso nettamente differenziate tra due periodi separati e molto distanziati tra loro. Le ricette più antiche sono attestate fin dall’Historia Plantarum di Teofrasto nel IV a.C., trapassando poi come di consueto nella Naturalis Historia di Plinio il vecchio (I d.C.), e nel coevo De Materia medica di Dioscoride, per giungere fino ai Papiri di Leida e Stoccolma datati tra la fine del III e l’inizio del IV d.C.

Come riferisce Dominique Cardon, e come ritengono concordemente tutti gli studiosi che se ne sono occupati 30, la manifattura dell’oricello era assai ben conosciuta nell’antichità – sembra addirittura fin dal III millennio a.C. presso gli Accadi – con denominazioni diverse, tra cui puh (accadico), phukh (ebraico), phykos (greco), fucus (latino). Tali termini sono quelli principalmente adottati da Teofrasto, che descrive il «fuco marittino» «in Creta, presso il lido, vive in gran copia e bellissima sui sassi una di queste piante, con la quale non solo si tingono le bende, ma anche la lana e le vesti; e finché la tinta è fresca, il colore è molto più bello della porpora. Nasce in maggior quantità e più bella dalla parte di tramontana» 31. Analoghe notizie sono riferite da Plinio che cita sia il termine greco «phycos thalassion», sia la sua traduzione latina «fucus marinus», ritenendolo anch’egli una specie di alga che si trovava a Creta, dove era usata per tingere le vesti 32. La descrizione fornita da Dioscoride è ancora più dettagliata:

Del Phuco marino

Il Phuco marino è di più spetie, uno cioè largo, l’altro lunghetto, & rosseggiante, & il terzo, che nasce in Candia, è bianco, floridissimo, & incorrotto. Hanno tutti virtù infrigidativa, non solamente alle podagre, ma ancora all’infiam-/magioni. Il che fa egli efficacemente, quando vi simpiastra suso: ma bisogna usarli freschi, avanti che secchino. Nicandro diede il rosso per i morsi delle serpi. Credonsi alcuni, che questo fusse quel Phuco, che adoperano le donne per colorirsi la faccia, non sapendo, che quello, che usano, è una radice di questo nome medesimo 33.

Gaio Giulio Solino nei suoi Collectanea rerum mirabilium (III d.C.) lo chiama purpurario fuco 34, mentre nei Papiri di Leida e di Stoccolma (quest’ultimo noto come Papyrus Graecus Holmiensis) torna la denominazione «phykos», per tinture che fossero in grado da sole, o con un doppio bagno d’immersione, di riprodurre la preziosa colorazione della porpora estratta dai murici 35.

Le ricette per la colorazione con il «phykos» sono più numerose nel Papiro di Leida che non nel Papiro di Stoccolma, ma tali differenze non sono rilevanti poiché entrambi i papiri greci derivano dal medesimo codice (redatto dallo stesso scriba), smembrato da Giovanni Anastasi (1796/7-1857/60), mercante e antiquario greco al servizio del consolato svedese in Egitto, che raccolse una notevole collezione di manoscritti, per poi rivenderli singolarmente a numerose istituzioni europee 36. Nel Papiro di Leida (ricetta n. 93) si afferma a proposito del phykos:

Frantuma della pietra di Frigia in piccoli pezzi, mettendola a bollire in acqua. Immergici la lana, lasciandovela finché non si raffredda. Poni, poi, in un recipiente una mina di phykos, fa’ che bolla, aggiungi la lana e lasciala raffreddare. Risciacqua con acqua di mare. Questo è il lavaggio preliminare e la pietra di Frigia, prima di essere frantumata, è cotta sino a diventare purpurea 37.

Nel Papiro di Stoccolma (ricetta n. 113), diversamente dal precedente, compare l’utilizzo dell’urina per una tintura applicata alla lana preventivamente mordenzata con allume, sottoponendo a bollitura il colorante, condizioni entrambe non richieste, come si dirà più avanti, per la solubilizzazione dell’oricello:

Per tingere con il phykos. Lava la lana, come è stato scritto di sopra, prendi quattro congi d’urina, mezza mina d’allume per mina, mescola ed accendi il fuoco sotto, finché non bolle, Metti dentro la lana ed agita continuamente, Quando la lana va giù ed il liquido si deposita, allora risciacquala. Metti a bollire in acqua potabile del phykos, immergi la lana ed agita con regolarità, finché essa non assorbe. Poi, dopo aver triturato del vetriolo, un quarto di mina per mina, mescola, rendi uniforme, agita continuamente. Dopo, tirala fuori, risciacqua, fa’ asciugare, come nelle altre ricette 38.

Le testimonianze più antiche di manufatti dove è stato riscontrato l’impiego dell’oricello sono costituite da un nutrito gruppo di manoscritti datati dal VI al IX secolo, caratterizzati dalla colorazione purpurea dei fogli in pergamena, come è il caso del Codice Purpureo di Rossano Calabro (VI d.C.) 39, Il Codex Sinopensis (VI d.C.) 40, il Codex Brixianus (VI d.C.) 41, la Genesi di Vienna ( VI d.C.) 42, la Bibbia di Teodulfo (IX d.C.) 43, il Libri S. Augustini de Trinitate (IX d.C.) 44 e il Book of Kells (IX d.C.) 45.

L’insieme delle indagini scientifiche condotte da vari gruppi di ricerca europei sui diversi codici, è riassunta da Maurizio Aceto in una tabella molto utile che aiuta ad evidenziare come nei codici con le pergamene purpuree dal VI al IX secolo l’oricello è sempre presente nella colorazione del supporto membranaceo, mentre tra IX e X secolo il colorante si trova in prevalenza utilizzato per dipingere le figurazioni 46.

Una conferma del particolare interesse che suscitava la realizzazione dei codici purpurei, generalmente redatti con inchiostri d’oro e argento, è fornita dal manoscritto 54 (già LXXXVII) della Biblioteca Capitolare di Ivrea, datato al X-XI secolo per quanto concerne la trascrizione paleografica, mentre il suo contenuto risale certamente all’età tardoantica per la compresenza di ricette di crisografia e argirografia 47. Nel manoscritto si trova la declinazione al femminile del termine ‘auricella’, forse pensando che si trattasse di un’erba come l’herba urceolaris:

Membrana tinctura [Tintura della pergamena]

Si lasci l’auricella per due giorni a bagno e poi si raccolga la feccia lasciata dal liquido colato; la stessa feccia sottile sia messa da parte per due giorni al pulito e si lasci riposare finché faccia deposito.

Quindi, gettato ciò che c’è sopra, si raccolga il deposito e così si faccia seccare. Allo stesso modo si prepari la calce. Quindi, quando queste due [sostanze] sono secche, si unisca l’auricella con poca acqua così che si sciolga e, se vuoi che essa sia più chiara o più scura, si aggiunga la calce. Metterai della chiara d’uovo su queste due sostanze così mescolate e così dipingerai delicatamente la pergamena con il pennello. Ma la pergamena, prima di essere tinta, sia appesa con punte uguali a una tavola lignea 48.

Il procedimento descritto nella ricetta non concerne in realtà la tintura della pergamena per immersione del foglio, ma la sua colorazione superficiale applicando l’oricello a pennello, dopo aver ben fissato il foglio a una tavola lignea. Tale procedura di colorazione appare ipotizzabile, per esempio, nel caso del codice purpureo di Rossano Calabro, sul quale si osserva nei bordi laterali dei primi fogli non miniati, una perdita della colorazione purpurea da addebitare allo sfregamento delle dita nello sfogliare il codice. Se la pergamena fosse stata tinta per immersione, la colorazione avrebbe impregnato la pelle anche al suo interno, e non si sarebbe consumata solo in superficie 49.

Una implicita conferma del procedimento di colorazione superficiale, anziché di tintura per immersione, proviene dalle scarsissime testimonianze sulla preparazione della pergamena, una delle quali è presente nelle famose Compositiones lucenses, ovvero nel manoscritto 490 della Biblioteca Capitolare di Lucca, dove si legge la seguente prescrizione:

Pargamina nabo bina quomodo fieri debet. Mitte illam in calcem et iaceat ibi per dies III; et tende illam in cantiro et rade illa[m] cum nobacula de ambas partes et laxas des[s]iccare. Deinde quodquod volueris scapilatura[m] facere, fac et postea pingue cum coloribus 50.

A partire dal X secolo la tintura all’oricello diviene sempre più rara, subendo una totale eclissi fino alla riscoperta dell’antenato dei Rucellai alla metà del Duecento. L’assenza di ricette per i secoli XIII-XIV testimonia in maniera eloquente il geloso segreto nel quale fu tenuta la manifattura dell’oricello da parte degli scaltri tintori fiorentini, come del resto confermano gli Statuti senesi del 1309-10: «Anco, conciò sia cosa che l’arte de la Lana molto sia utile ne la città di Siena, et molte povare persone per lo ministerio de la detta arte continuamente si sostentino, et li uomini de la detta arte defecto non picciolo patiscano de l’oricello, el quale avere non possono, né farlo recare da la città di Fiorenza» 51.

I riferimenti più articolati sono infatti tutti presenti in testi datati al Quattrocento, come il Manoscritto di Como e il Manoscritto di Bologna, con la particolarità ulteriore che diversamente dalle fonti che descrivono il colorante nel XIX secolo, non si parla mai di una tinta violetta, ma l’oricello è classificato unicamente tra i coloranti rosso-purpurei.

Il Ms. 2681 della Biblioteca universitaria di Bologna riporta al capitolo VI una ricetta in latino dove si afferma perentoriamente: «L’Oricello ha un colore purpureo [«Auricellam purpureum habet colorem»] 52.

Il Ms.4.4.1 della Biblioteca Civica di Como contiene invece quattro ricette dove il lichene è chiamato «raspa» ed è posto a fermentare in urina per otto giorni finché non inizia a «rosizar», cioè a rosseggiare, e si può lasciarlo altri tre giorni se si vuole di colore «violado» che va però «fissato» aggiungendovi dell’allume e destinato a tingere la seta. Va infatti precisato, come avvertono vari testi, che l’oricello era destinato a tingere fibre di origine animale come lana e seta, ma non si rivelava adatto alle fibre vegetali, e in ogni caso aveva una marcata tendenza a scolorirsi, ragione per cui era preferenzialmente usato come bagno di tintura di base (generalmente indicato come ‘piede’), dopo il quale si potevano tingere i tessuti con altri coloranti, ottenendo così una varietà di sfumature diverse.

Una ricetta esplicitamente intitolata «A fare violeto» è presente nel Ms. Veneziano conservato nel fondo Sloane n. 416 della British Library di Londra e coevo ai precedenti manoscritti citati, dove si afferma: «toi delo rozelo, e falo boire con la urina del’omo, tanto che chali el terzo; e serà fino. E mitege dela goma, quela che pare che stia bene» 53.

Questa ricetta, che si riferisce non alla tintura, ma al confezionamento delle pezzuole per miniare, è forse parzialmente errata, poiché tutte le indicazioni di manifattura dell’oricello precisano che il lichene non andasse mai fatto bollire, come stabilisce in modo inequivocabile il Trattato (o Manuale) dell’arte della lana, Ms. 2580 della Biblioteca Riccardiana di Firenze, che dedica alle tinture i fogli dal 123 al 182 54. Pur non descrivendo il procedimento di preparazione dell’oricello (omettendo del resto anche quelle per il kermes e il guado), cita però gli effetti negativi o positivi derivanti dall’uso di alcuni ingredienti o procedimenti: «guastolla per troppo colore, anche l’abubiò, perché bollì l’oricello, e non vuol bollire» (f. 156v); «l’orina adaquata […] rischiara la lana d’oricello» (f. 157r); «lla lana d’oricello […] messa nellacqua forte o di cruscha […] piglierà uno cholore chiaro come rosato» (f. 154v); «i detti colori d’oricello, alluminati prima, di poi alla maestra dell’allume di feccia rosseggiano» (f. 154r).

L’affermazione conclusiva era infine che «l’oricello li vien da Vinegia» (c. 162r), ribadendola al foglio successivo: «l’oricello venne a N. da Vinegia […] dice si conserva lasciandolo stare nel bariglion dove venne» (f. 163r) 55.

In sostanza l’oricello, derivato da uno dei licheni del genere Roccella, forniva a seconda dei trattamenti tintori delle colorazioni variabili dal rosso al purpureo-violaceo, ma mai un violetto come siamo soliti intenderlo oggi.

Cercando di comprendere come sia nata la confusione tra il rosso purpureo e il violetto, si rintracciano due testi che nel Settecento descrivono la scoperta dell’oricello: ne parla Giovan Francesco Pagnini nel 1765, affermando la consueta origine del nome della famiglia Rucellai dalla scoperta dell’oricello, e precisando che esso era usato «per tingere panni lani in paonazzo» 56. L’altro testo, che fornisce una testimonianza più articolata ed estesa, è di Domenico Maria Manni (1730) e ribadisce che l’antenato dei Rucellai andato in Levante, «di là portato avea quella maniera di tingere i panni lani di pavonazzo, che chiamasi tingere a oricello, perché […] postosi a orinare sopra cert’erbe, osservò che alcune di quelle, tocche appena dall’orina divenian pavonaze» 57.

Nel commentare tale scoperta, Manni riferisce di essersi ulteriormente documentato chiedendo a suoi amici, come Lorenzo Mariani (1664-1738) custode «dell’Archivio delle antichità delle famiglie fiorentine» presso il Palazzo della Signoria, del quale riporta la testimonianza, concernente il solito antenato Rucellai che orinando casualmente

sopra un’erba, della quale gran copia vi era, vedde, che in quell’istante ella diventò oltremodo rossa; onde come uomo accorto, disegnò servirsi di quel segreto della natura, stato per insino a quel tempo nascosto; per il che fatta più volte esperienza di detta erba, e trovatala buona a colorire i panni, ne mandò in Firenze, dove mescolata con l’orina umana, & altre cose, ha servito sempre a tignere i panni di color paonazzo 58.

Manni ricorda poi di sfuggita lo Zibaldone di Giovanni di Paolo Rucellai (1457), dove si afferma: «E nostri antichi fuorno tintori d’oricello et in quel tempo non era in Firenze né in tutta Italia chi sapessi tignere di decto oricello […] e da questo aviamento principiò la richeza et il buono stato della nostra famiglia perché era mestiero d’un grande utile» 59.

Un ultimo riferimento è relativo alla novella n. 167 di Franco Sacchetti (1393-1400), che narra la visita di un tintore a un medico, il quale dalla ingente quantità di urina presentatagli dal paziente, gli chiede se fosse specializzato nella tintura all’oricello 60; concludendo infine con gli studi botanici del 1729 di Pietro Antonio Micheli (1679-1737) sulla pianta denominata «Roccella, Orcella o raspa» che è impiegata per tingere la lana e la seta con un colore «subpurpureo» 61.

I termini ‘purpureo’, ‘subpurpureo’ e ‘paonazzo’ ci indirizzano nel comprendere come i testi ottocenteschi – evidentemente contagiati dalla chimica industriale che ha spezzato per sempre il legame tra i materiali coloranti naturali e l’antica terminologia corrispondente – abbiano frainteso la colorazione principale ottenuta con l’oricello che era rosso purpureo e non viola.

Un’indicazione piuttosto precisa in questo senso proviene dall’Alphabetun Romanun redatto nel 1460 dall’umanista e appassionato calligrafo Felice Feliciano (1433-1480) che oltre a definire «i canoni della scrittura lapidaria» 62, si esercita parallelamente nel recupero dell’antica arte della crisografia su pergamena purpurea, riprendendo anche alcune ricette sulla decorazione libraria, come quella tratta dal codice di Ivrea relativa alla colorazione della pergamena con l’oricello:

A tingier Carte in colore pavonazzo.

Radi prima el bergamino dalun lato e da laltro, poi lavalo con aqua chiara insieme con semola e fa che quando sono bene limpide e nete, siano tra duj extremi, hoc est tra humido et sicco. Et habij preparato il colore di Oricello sfiorado e fricha molto bene il dicto pergamenino conla mano sopra spargiendo il colore e questo fa tanto assiduo che la carta piglia buona tinta e poi la tira sopra il circulo e radi col cortello il superfluo del colore e lassalla siccare a lombra et e facta 63.

Il sostantivo paonazzo (derivato etimologicamente dalla pregiata specie marmorea denominata «occhio di pavone»), come l’aggettivo purpureo, sono da intendere come sinonimi per indicare la tinta ottenuta più spesso da miscele di coloranti rossi diversi che erano impiegate per simulare il colore dell’antica porpora fenicia, ormai estinta nel bacino del Mediterraneo dal V d.C., e che aveva rappresentato per secoli l’emblema del potere imperiale romano e bizantino.

Non potendo più servirsi della porpora originariamente estratta dai Murici, i tintori si industriarono a lungo per trovare dei succedanei soddisfacenti: dapprima (forse ancora nel V d.C.) estraendo il colorante dalle stoffe già tinte ma consunte e inservibili (ne bastava una quantità minima per ottenere una tintura efficace), poi utilizzando la «purpura dibapha» 64 dove il termine deriva dal verbo greco ‘bafein’, che indica l’immersione in bagni di tintura per due (o anche tre) volte, con differenti tipologie di coloranti rossi. Il primo di tali bagni (che costituiva il già citato ‘piede’) era realizzato con l’oricello e seguito da successive immersioni in coloranti rossi intensi, come il kermes o la garanza. In tal modo, oltre a garantire la solidità cromatica che la tintura all’oricello tendeva a perdere con il tempo, si otteneva una colorazione profonda e brillante, come riferisce il Papyrus Holmiensis (n. 125): «Il phykos, di color porpora e solido, è come la tintura del murice […] di colore più smagliante» 65.

Il grande prestigio cui pervenne la famiglia Rucellai derivò dunque dall’abilità di fornire panni colorati con una tintura all’oricello che oltre a essere solida e non scolorirsi, era in grado di imitare perfettamente la porpora antica, e con tale colore erano tinti il tocco e il lucco del Proconsolo fiorentino, ovvero il magistrato che presiedeva l’Arte dei Giudici e Notai di Firenze, cui spettò dal 1312 la giurisdizione per le controversie giudiziarie di tutte le arti o corporazioni fiorentine.

  1. I. Del Punta-L.Galoppini, Mercati internazionali e mercato locale: uomini e merci nelle imbreviature di Ser Matteo di Biliotto, in La Firenze dell’età di Dante negli atti di un notaio: Ser Matteo di Biliotto, 1294-1314, a cura di A. Barlucci-F. Franceschi-F. Sznura, Firenze 2020, pp. 133-164; F. Ammannati, «Se non piace loro l’arte, mutinla in un’altra. I lavoranti dell’Arte della lana fiorentina tra XIV e XVI secolo, in “Annali di Firenze”, VII (2012), pp. 5-33, in part. p. 5; F. Ammannati, Per filo e per segno. L’arte della lana a Firenze nel Cinquecento, Firenze 2020, pp. 3-10 e relativa bibliografia tra cui l’ormai classico H. Hoshino, L’Arte della Lana a Firenze nel Basso Medioevo. Il commercio della lana e il mercato dei panni fiorentini nei secoli XII-XIV, Firenze 1980.[]
  2. J.H. Munro, The Rise, Expansion, and Decline of Italian Wool-Based Cloth Industries, 1100-1730: a Study in International Competition, Transaction Costs, and Comparative Advantage, in “Studies in Medieval and Renaissance History”, III s., IX (2012), pp. 45- 207, in part. 48, 61, 73-80.[]
  3. M. Harsch, Il Libro discepoli e pigione del tintore Giunta di Nardo Rucellai, Pisa 2018, p. 12.[]
  4. Il nome Oricellai compare in Giovanni Villani, Nuova Cronica, a cura di G. Porta, Parma 1991, lib. XIII, p. 1427.[]
  5. E. Gamurrini, Istoria genealogica delle Famiglie nobili Toscane et Umbre, Firenze 1668, pp. 274-283.[]
  6. L. Passerini, Genealogia e storia della famiglia Rucellai, Firenze 1861.[]
  7. G. Marcotti, Un mercante fiorentino e la sua famiglia nel secolo XV, Firenze 1881.[]
  8. S. Brigidi, Vita di Giov. Battista Niccolini, Firenze 1878, p. 102; E. Bacciotti, Firenze illustrata nella sua Storia-Famiglie-Monumenti, Arti e Scienze, Firenze 1886, p. 561.[]
  9. M. Harsch La teinture et les matières tinctoriales à la fin du Moyen Âge. Florence, Toscane, Méditerranée, Roma 2024, p. 353.[]
  10. G. Astuti, Libro dell’entrata e dell’uscita di una compagnia mercantile senese del secolo XIII, Torino 1934, p. 266, n. 33.[]
  11. Libro del dare e dell’avere, e di varie ricordanze di Lapo Riccomanni, in Nuovi testi fiorentini del Dugento, a cura di A. Castellani, Firenze 1952, pp. 516-555, in part. p. 537.[]
  12. Statuto dell’Università ed Arte della lana di Siena. Addizioni e aggiunte (1298-1309), in Statuti senesi scritti in volgare ne’ secoli XIII e XIV, a cura di F-L. Polidori, Bologna 1863, vol. 1, p. 307.[]
  13. Memoria delli Consigli et d’altre cose utili per l’Università dell’Arte della lana della città di Pisa (1321), in Statuti inediti della città di Pisa dal XII al XIV secolo, a cura di F. Bonaini, Firenze 1857, vol. III, p. 751.[]
  14. Sugli Orti Oricellari cfr. P. Tabacchini, Per imitare gli antichi, in «Studi sulla Formazione», XXII (2019), pp. 301-307.[]
  15. M. Harsch, La teinture et les matières tinctoriales…, 2024, p. 353.[]
  16. A. Ferretto, Codice diplomatico delle relazioni fra la Liguria, la Toscana e la Lunigiana ai tempi di Dante (1265-1321). Parte prima dal 1265 al 1274, in “Atti della Società Ligure di Storia Patria”, XXXI (1901), fasc. 1, p. 330, n. DCCCXXI.[]
  17. Id., Codice diplomatico delle relazioni fra la Liguria, la Toscana e la Lunigiana ai tempi di Dante (1265-1321). Parte seconda dal 1275 al 1281, in “Atti della Società Ligure di Storia Patria»”, XXXI (1903), fasc. 2, p. 391, n. DDCCXCVI.[]
  18. F. Balducci Pegolotti, La pratica della mercatura, ed. A. Evans, Cambridge 1936, p. 123.[]
  19. M. Harsch, La teinture et les matières tinctoriales…, 2024, p. 354.[]
  20. M. Harsch, La teinture et les matières tinctoriales…, 2024, p. 356.[]
  21. Ibidem.[]
  22. D. Cardon, Guide des teintures naturelles. Plantes, Lichens, Champignons, Molusques et Insectes, Neuchâtel-Paris 1990, pp. 323-324; N. Eastaugh et al., Pigment Compendium. A Dictionary of Historical Pigments, Amsterdam, 2004, pp. 135, 237-238, 283.[]
  23. D. Cardon, Guide des teintures …, 1990, pp. 322-323.[]
  24. R. De Lespinasse-F. Bonnardot, Les métiers et corporations de la ville de Paris, XIIIe siècle. Le Livre des Métiers d’Etienne Boileau, Paris 1879, p. 119.[]
  25. C. Pasqualetti, Il Libellus ad faciendum colores dell’Archivio di Stato dell’Aquila. Origine, contesto e restituzione del “De arte illuminandi”, Firenze 2011, pp. 240-241, ma anche P. Bensi, Le materie coloranti del Libellus, in Ivi, pp. 179-206, in part. sul folium pp. 184, 202; D. Cardon, Guide des teintures…, 1990, pp. 325-326.[]
  26. D. Cardon, Guide des teintures…, 1990, p. 316; N. Eastaugh et al., Pigment Compendium…, 2004, p. 238.[]
  27. A. Casoli- M.E. Darecchio-L. Sarritzu, I coloranti nell’arte, Saonara 2009, pp. 130-134; J.P. Robiquet, Essai analytique des lichens de l’orseille, in “Annales des Chimie et de Physique”, XLII (1829), pp. 236-257.[]
  28. A. Bellucci et al., Colori e coloranti. La tintura nel restauro del tessile antico, in “OPD Restauro”, 3 (1991), pp. 99-126, in part., pp. 109-111; sui mordenti metallici e l’allume, cfr. F. Franceschi, Il ruolo dell’allume nella manifattura tessile toscana dei secoli XIV-XV, in “Mélanges de l’Ecole française de Rome – Moyen Age”, CXXVI (2014), 1, pp. 1-14.[]
  29. M. Harsch, Il Libro discepoli e pigione…, 2018, p. 12.[]
  30. D. Cardon, Guide des teintures…, 1990, p. 320.[]
  31. Teofrasto, La storia delle piante, a cura di F. Ferri Mancini, Roma 1901, lib. IV, cap. VI, 5, p. 147.[]
  32. G.S. Plinio, Storia naturale. III: Botanica. 1, a cura di A. Aragosti et al., Torino 1984, lib. XII, 68, 135; Id., Storia naturale. III: Botanica. 2, a cura di A. Aragosti et al., Torino 1985, lib. XXVI, 66, 103.[]
  33. Dioscoride, Della historia & materia medicinale, libri cinque tradotti in lingua volgare italiana da M. Pietro Andrea Matthiolo Sanese Medico, Venezia 1544, lib. IV, cap. 102, pp. 337-338.[]
  34. G.C. Solino, Collectanea rerum mirabilium, ed. T. Mommsen, Berlino 1895, p. 114, riga 7.[]
  35. E. Renna, Ricette per succedanei della porpora in due papiri greci, in La Porpora. Realtà e immaginario di un colore simbolico, a cura di O. Longo, Venezia 1998, pp. 133-147, in part. p. 137. La pietra di Frigia citata nella ricetta va identificata con l’allume.[]
  36. M. Clarke, The Art of all Colours. Medieval Recipe Books for Painters and Illuminators, London 2001, pp. 6-8.[]
  37. E. Renna, Ricette per succedanei…, 1998, pp. 142-143. La ‘mina’ era un’antica unità di misura corrispondente a circa 436,6 grammi.[]
  38. E. Renna, Ricette per succedanei…, 1998, p. 143.[]
  39. Il Codex Purpureus Rossanensis, a cura di M.L. Sebastiani-P. Cavalieri, Roma 2020.[]
  40. Conservato a Parigi, Bibliothèque Nationale de France, Supplément grec. 1286, per l’identificazione dell’oricello, cfr. C. Hofmann (ed.), The Vienna Genesis: Material analysis and conservation of a Late Antique illuminated manuscript on purple parchment, Wien-Köln-Weimar 2020, p. 109.[]
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  61. P. A. Micheli, Nova Plantarum genera iuxta Tournefortii Methodum Disposita, Firenze 1729, p. 78.[]
  62. M. Marconcini, Procedimenti nell’Alphabetun Romanun di Felice Feliciano, in Oro, argento e porpora…, 2012, p. 108.[]
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  64. E. Renna, Ricette per succedanei…, 1998, p. 139.[]
  65. E. Renna, Ricette per succedanei…, 1998, p. 146.[]